È tempo di ridimensionare l’efficacia dei beta-bloccanti nel trattamento dei pazienti colpiti da infarto del miocardio. La terapia considerata uno dei pilastri nella cura di eventi cardiovascolari, è stata, infatti, messa in discussione nello studio REDUCE-AMI pubblicato sul New England Journal of Medicine e presentato al congresso dell’American College of Cardiology in corso ad Atlanta, secondo il quale l’uso di questi farmaci non ridurrebbe il rischio di morte o di infarto miocardico nei pazienti colpiti da questa patologia.
L’efficacia dei betabloccanti dopo un infarto si basava su studi datati
“L’utilizzo dei beta-bloccanti nel post infarto è una pratica clinica consolidata”, afferma Ciro Indolfi, past-president della Società Italiana di Cardiologia (SIC). “Si tratta di una classe di farmaci che agisce inibendo i recettori beta-adrenergici e inducendo la riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. L’efficacia terapeutica di questi farmaci – continua – si basa però, ancora oggi, sull’effetto dimostrato in studi clinici datati, condotti prima della diffusione delle attuali tecniche di rivascolarizzazione con lo stent, dell’implementazione sistematica delle statine, della disponibilità di efficaci farmaci per la prevenzione primaria e secondaria e delle moderne terapie antiaggreganti. Da quando questi nuovi trattamenti sono diventati accessibili, il valore della terapia con beta-bloccanti nei pazienti con infarto miocardico, senza insufficienza cardiaca, è stato messo in dubbio, ma fino ad oggi erano disponibili solamente studi osservazionali che fornivano risultati contrastanti”.
Il primo studio moderno sui benefici della terapia nei pazienti colpiti da infarto
“REDUCE-AMI rappresenta, pertanto, il primo studio moderno sui benefici dei beta-bloccanti ed evidenza la mancanza di efficacia di questa terapia nel ridurre il rischio di morte o infarto nei soggetti colpiti da infarto del miocardio, trattati con angioplastica coronarica che hanno una normale contrattilità del cuore”, aggiunge Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli. Lo studio REDUCE-AMI, randomizzato, multicentrico e “in aperto”, ha valutato l’efficacia della terapia con beta-bloccanti in 5.020 pazienti con età media di 65 anni, con infarto miocardico acuto trattati con angioplastica e con una normale funzionalità contrattile del muscolo cardiaco. La ricerca condotta da settembre 2017 a maggio 2023 in 45 centri in Svezia, Estonia e Nuova Zelanda, ha confrontato il decorso clinico del gruppo dei pazienti ai quali era stata prescritta una terapia con beta-bloccanti rispetto a quelli trattati senza questi farmaci.
L’uso di routine dei betabloccanti non è vantaggioso
“I risultati hanno mostrato che, a circa 3 anni e mezzo dall’inizio dello studio, l’incidenza di decessi e di un secondo infarto non sono stati significativamente differenti nei due gruppi”, spiega Indolfi. “Non sono state registrate differenze di rilievo neanche nel numero di ospedalizzazioni per fibrillazione atriale, per insufficienza cardiaca, ictus o per interventi di impianto di un pacemaker”, aggiunge. “A seguito di questo studio non sono però stati riscontrati segnali negativi riguardo la sicurezza del trattamento – chiarisce Perrone Filardi –, e riteniamo che le evidenze siano ancora a favore dei beta-bloccanti per i pazienti con infarto miocardico di grandi dimensioni, che presentano insufficienza cardiaca. Per i pazienti con normale contrattilità del cuore, questo studio stabilisce, invece, che non ci sono indicazioni che l’uso di routine dei beta-bloccanti sia vantaggioso. Potrebbe però essere troppo presto per escludere definitivamente questo tipo di terapia dagli strumenti a disposizione nella prevenzione secondaria e sono, pertanto, necessari ulteriori studi”.
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