Il portavoce della Federazione degli ordini delle professioni infermieristiche elogia i risultati ottenuti sulla salute della popolazione e sui sistemi sanitari dalla sperimentazione dell’infermiere di famiglia e di comunità in Lombardia, Piemonte e Toscana e ne auspica la messa a sistema in tutto il Paese
Tonino Aceti è da poco il portavoce della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI), ma non ha dubbi sul fatto che quella sull’infermiere di famiglia e di comunità sia una delle principali battaglie da affrontare a nome dell’intera comunità dei camici verdi. L’obiettivo, adesso, è inserire la figura dell’infermiere di famiglia nel nuovo Patto per la Salute.
«I presupposti perché questo accada ci sono tutti, e la FNOPI si sta attivando per essere protagonista di questo processo» sottolinea Aceti ai nostri microfoni, a margine dell’incontro “Academy, il governo dell’assistenza sanitaria” organizzato su iniziativa del senatore Antonio De Poli da Motore Sanità. Tra le principali tematiche affrontate nel corso del pomeriggio, quella dell’integrazione tra ospedali e territorio nella lotta alle cronicità l’ha fatta da padrone. E Aceti non poteva che portare l’infermiere di famiglia come esempio virtuoso di figura che «riavvicina il Servizio sanitario nazionale alle persone». Aceti accende infatti i riflettori sul «problema enorme delle aree interne più disagiate del Paese, che rappresentano i 3/5 del nostro territorio in cui vive 1/4 della popolazione. Aree e comunità in cui non ci sono servizi, e dove gli infermieri, in stretto coordinamento con gli altri professionisti, possono portare sanità e risposte del Servizio sanitario nazionale».
Più del 70% degli infermieri, tuttavia, è ancora impegnato negli ospedali. Il restante 30% opera, «ancora in modo un po’ troppo scoordinato e non sempre all’interno della cornice del Piano Nazionale della Cronicità», nei servizi territoriali. L’esperienza dell’infermieristica di famiglia è per ora realtà solo in tre regioni italiane, Toscana, Lombardia e Piemonte, dove «sta producendo sulla salute della popolazione e dei Servizi sanitari regionali degli ottimi risultati. Il nodo è quindi estendere queste esperienze a tutte le altre Regioni, ma oggi – prosegue Aceti –, in un regionalismo che aumenta le difformità, queste esperienze rischiano di non trovare una messa a sistema».
A detta del portavoce della FNOPI, l’infermiere di famiglia «porta il Servizio sanitario nazionale dentro le case delle persone, individuando e prendendo in carico in modo proattivo i bisogni della popolazione e sostenendo le famiglie». Ovviamente tra i suoi compiti rientrano tutte le attività infermieristiche: «Coordina e integra gli interventi – spiega Aceti -, fa sì che non ci sia una frammentazione del percorso che purtroppo caratterizza il SSN. Oggi – prosegue – il paziente corre dietro ai professionisti e ai servizi; in questo caso, invece, sono gli infermieri ad andare incontro al paziente, senza aspettare che esprima un problema ma estrapolandolo e offrendogli soluzioni pratiche».
«Credo – conclude Aceti – che quello dell’infermiere di famiglia sia un bellissimo modello di iniziativa di sanità, e non di sanità di attesa, su cui dovremmo investire sempre di più».