Lo studio pubblicato dalla Società di Medicina Ambientale sul BMJO ha accertato la presenza di RNA virale sul particolato atmosferico in pianura Padana a febbraio-marzo. L’epidemiologo Piscitelli: «L’inquinamento può essere stato un fattore che ha amplificato il fenomeno anche se non sappiamo ancora se il virus sul particolato sia infettivo»
Ha fatto il giro del mondo il Position Paper pubblicato dalla SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale) sul British Medical Journal Open dedicato al rapporto tra epidemia da Covid-19 e inquinamento atmosferico. I ricercatori hanno infatti dimostrato che l’RNA virale fosse presente sul particolato atmosferico di 39 province del Nord Italia dove erano stati regolarmente sforati i limiti di emissioni nei mesi di febbraio e marzo.
Il documento, intitolato “Potential role of particulate matter in the spreading of COVID-19 in Northern Italy: first observational study based on initial epidemic diffusion”, non dimostra che il virus trovato sul particolato fosse infettivo, ma che sicuramente la sua presenza è un campanello d’allarme che può segnalare l’alta diffusione del Covid-19.
«Nei periodi del picco pandemico tutti hanno notato che il virus stava aggredendo quei luoghi come la pianura Padana dove maggiore è il livello di inquinamento. Questo ci ha fatto accendere la lampadina», spiega a Sanità Informazione il professor Prisco Piscitelli, epidemiologo e vicepresidente SIMA.
«C’è un elemento ulteriore da sottolineare – continua Piscitelli -. Noi immaginiamo ci sia uno spazio vuoto tra noi e altre persone. Invece è pieno di altri corpuscoli come particelle e polveri sottili. Mi riferisco alle PM2.5, alle PM10 e poi ad altre particelle ancora più piccole. In quelle zone all’inquinamento si aggiungono spesso altre condizioni climatiche come la mancanza di ventilazione. Su 20 giorni di osservazione ne abbiamo avuti 10-15 di sforamenti sopra i 50 microgrammi al metrocubo che è il limite massimo consentito per legge: vuol dire c’erano più di 100mila particelle per centimetro cubo di aria. Il particolato atmosferico, su cui hanno aderito gocce di saliva, avrebbe potuto facilitare la diffusione della gocciolina contenente il virus con potenziale infettivo».
Il collegamento era stato già ipotizzato dalla SIMA nei mesi scorsi, ma ora il timbro dell’autorevole British Medical Journal Open, che ha a lungo revisionato lo studio confermandone la solidità, ne ha sancito l’autorevolezza.
Lo studio ha riguardato un totale di 41 province del nord Italia: 39 di queste si collocavano nella categoria di massima frequenza di sforamenti di PM 10, sopra i 50 microgrammi. Mentre 62 province meridionali su 66 erano nella categoria con livelli più bassi di inquinamento atmosferico. Un andamento analogo si è registrato sul PM2.5, pur con l’assenza di un 30% di centraline. La conclusione dello studio è che gli sforamenti di PM10 si rilevavano un significativo fattore predittivo della diffusione di Covid-19.
«L’inquinamento può essere stato un fattore che ha amplificato il fenomeno – continua Piscitelli -. Chi vive in quelle zone già di base può essere maggiormente suscettibile alle conseguenze di infezioni che colpiscono le vie respiratorie, dato che le popolazioni sono cronicamente esposti a quei livelli di polveri sottili. Quello che non possiamo ancora affermare è che il virus sul particolato sia vitale e per quanto tempo mantenga la sua infettività. Per far questo ci vogliono le istituzioni che hanno dei laboratori di sicurezza attrezzati».
Lo studio pone un interrogativo inquietante sul prossimo inverno, quando le condizioni ambientali e di inquinamento potrebbero essere analoghe a quelle dell’inverno scorso in alcune aree geografiche. «Dobbiamo scongiurare il rischio di ritornare agli stessi livelli di emissioni e inquinamento atmosferico di gennaio e febbraio – ha sottolineato il vicepresidente SIMA -. Due-tre mesi di lockdown ci hanno mostrato come la Terra si sia rigenerata sotto tanti punti di vista. Non possiamo permetterci di tornare in quella situazione. Serve maggiore attenzione al contenimento delle emissioni e muoverci in direzione di una crescita economica compatibile con l’ambiente da cui noi abbiamo scoperto di essere dipendenti e non degli elementi slegati e scollegati».
L’uso predittivo dei dati del particolato atmosferico è stato confermato anche dal fatto che in primavera, durante il lockdown, il virus non c’era più. Per questo la SIMA e Piscitelli sperano di poter continuare i loro studi e provare a proporre l’utilizzo di questa rete di sentinelle atmosferiche attivata in Europa per essere pronti a cogliere i primi segnali di una eventuale recrudescenza epidemica. «Se noi ritrovassimo a un certo punto dell’inverno sul particolato atmosferico l’RNA virale – conclude Piscitelli – vuol dire che ci sono delle condizioni di circolazione del virus già importanti nella popolazione e condizioni climatiche e di temperatura e di inquinamento importanti che potrebbero generare nuovamente fenomeni come quelli che abbiamo osservato a febbraio e marzo».
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