È una malattia genetica rara a trasmissione ereditaria. A Sanità Informazione il coordinatore del progetto ProFFIle Roberto Chiesa spiega «la collaborazione con i pazienti utile per trovare una terapia efficace»
Non riuscire a dormire fino a morire, è questa la condizione in cui si trovano alcuni individui che sviluppano l’insonnia fatale familiare, (IFF), malattia genetica rara che fa parte del gruppo delle malattie da prioni, malattie degenerative che colpiscono il sistema nervoso centrale degli uomini e altri mammiferi. «Si tratta di una malattia molto rara, con una incidenza di 1 o 2 casi per milioni di persone in un anno – spiega a Sanità Informazione Roberto Chiesa, direttore del laboratorio di neurobiologia dei prioni del dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto Mario Negri – . Si manifesta in un arco di tempo variabile, ma con una rapida e nefasta evoluzione dopo la comparsa dei primi sintomi».
Dare una risposta ai pazienti che vivono con questa spada di Damocle sulla testa è l’obiettivo dell’Istituto Mario Negri che, grazie alla collaborazione con l’Associazione Familiare Insonnia Fatale Familiare (AFIFF), ha avviato studi mirati a cercare i fattori di rischio e trovare la cura. «Scoperta per la prima volta in Italia nel 1986 dove è particolarmente diffusa nella zona di Treviso – racconta il ricercatore – è stata poi riscontrata anche in Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone e Cina. La patologia causata dalla mutazione del gene PRNP, responsabile della produzione della proteina prionica PrP, ha come segno clinico distintivo una profonda alterazione del sonno».
Dopo una fase iniziale, in cui si manifesta con l’incapacità di addormentarsi e di continuare a dormire, progredisce con una perdita completa del sonno. Permane una costante sonnolenza alterata da stati allucinogeni in cui il paziente confonde sogni e realtà. Si perde completamente l’organizzazione del sonno e subentrano problemi di regolazione del sistema nervoso autonomo con aumento di frequenza cardiaca e respiratoria, pressione arteriosa e temperatura corporea. La morte sopraggiunge entro due anni spesso per un attacco febbrile acuto. «Gli esami approfonditi che vengono fatti sul cervello rivelano poi che si verifica una estesa perdita di neuroni nel talamo, l’area del cervello coinvolta nella regolazione del sonno», sottolinea Chiesa.
I soggetti colpiti dall’insonnia fatale familiare possono essere uomini o donne che denotano un’alterazione dell’amminoacido 178 della proteina PrP che predispone allo sviluppo della malattia. «È una malattia genetica autosomica dominante, quindi è sufficiente ereditare un solo allele mutato per essere a rischio – fa notare Chiesa -. Ogni figlio ha il 50% delle probabilità di avere ereditato il gene mutato, indipendentemente dal fatto che si tratti di maschio o femmina e che la mutazione sia ereditata dal padre o dalla madre».
La malattia ha una penetranza molto alta: chi possiede il gene mutato, ha una probabilità di sviluppare la malattia superiore al 90%. Generalmente esordisce in una fascia di età compresa tra i 50 e i 55 anni, «ma si sono verificati casi anche in età giovanile», puntualizza il ricercatore. Fondamentale, dunque, è riconoscere prima possibile i soggetti con il gene mutato. Il Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto Mario Negri perciò cerca, attraverso lo sviluppo di modelli cellulari e animali di FFI, di studiare i meccanismi e valutare potenziali terapie.
Nata nel 2003, l’Associazione Familiari Insonnia Fatale Familiare racchiude tutte le famiglie che presentano casi di insonnia familiare fatale. Ha sede a Treviso, presso l’Ospedale Cà Foncello, dove, per la prima volta, è stata individuata. «In quella zona ci sono molte famiglie in cui la malattia si tramanda di generazione in generazione – prosegue il ricercatore – e l’associazione è nata proprio con l’intento di partecipare a progetti di ricerca per trovare una terapia che ancora manca». Attraverso l’analisi genetica è possibile sapere quali sono le persone che hanno ereditato il gene mutato, ma non quando svilupperanno la malattia nel corso della loro esistenza.
«Oggi non esiste ancora una cura -sottolinea il direttore del laboratorio di Neurobiologia dei prioni del Mario Negri – anche se con AFIFF nel 2023 concluderemo uno studio clinico su portatori del gene mutato per valutare l’efficacia della doxiciclina, un antibiotico somministrato prima ancora della comparsa dei sintomi per capire se riesce a prevenire o ritardare l’insorgenza della malattia». Un puzzle da comporre che oggi si arricchisce di un nuovo importante tassello con lo studio ProFFile di cui l’Istituto Mario Negri è coordinatore di un team internazionale di Germania, Spagna e Turchia, oltre ai ricercatori dell’Istituto Carlo Besta di Milano.
«È un progetto nato dall’esigenza di trovare i biomarcatori in grado di dire quando si svilupperà la malattia e come progredirà – spiega Chiesa -. Oggi, grazie alla collaborazione dell’associazione AFIFF siamo in grado di fare analisi su campioni biologici (sangue, urine, tampone nasale) di persone con mutazione della proteina prionica e vedere se il livello della stessa o di altre proteine cambia col tempo. In questo modo entro tre anni contiamo di riuscire a identificare potenziali biomarcatori che ci permettano di prevedere quando queste persone saranno prossime a sviluppare la malattia e a seguirne il decorso nel tempo». Un passo avanti che permetterà di utilizzare poi i farmaci in modo più efficace. «Una volta individuati i biomarcatori predittivi sarà possibile avviare il trattamento farmacologico nella fase prossima di sviluppo della malattia e valutare se funziona».
Essere portatore di un gene mutato significa sapere di sviluppare la malattia, ma anche di poterla trasmettere nel 50% dei casi agli eredi. Esiste però la possibilità di ridurre a zero questo rischio con una indagine genetica dell’embrione preimpianto. «Con una fecondazione in vitro – sottolinea il direttore del laboratorio di neurobiologia dell’Istituto Mario Negri – è possibile fare un’analisi genetica degli embrioni prima dell’impianto, in modo da selezionare l’embrione che non porti il gene mutato». Questa pratica già molto in uso negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei è ancora poco conosciuta in Italia. «È il modo migliore per eliminare completamente una malattia genetica all’interno di una famiglia – afferma Chiesa -. Nel nostro paese è possibile, ma è una pratica poco diffusa perché è una prassi non ancora entrata nella cultura».
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