Lo psichiatra esperto in dipendenze Federico Tonioni (Gemelli): «I social network e l’interattività digitale sono la nuova realtà. Sbagliato demonizzarli tout court»
Immersi in uno schermo, assuefatti allo scrolling compulsivo saltando da un social a un altro, incapaci di resistere alla tentazione di controllare continuamente lo smartphone o il numero di like e condivisioni ai propri contenuti online. É una fotografia a tratti inquietante quella tracciata da The Guardian che, in un recente articolo, spiega come la dipendenza dai social ci renda schiavi della dopamina, il neurotrasmettitore che regola i meccanismi del piacere e della ricompensa, al pari di altre e più conclamate dipendenze, quali quelle da droga, sesso, cibo.
Così come, sempre secondo The Guardian, la dipendenza dai social possa avere un impatto sulla capacità di essere in contatto con la vita e con le emozioni reali, addirittura incidendo negativamente sull’essere bravi genitori, partner, amici. Esattamente come accade con le altre dipendenze. Dalle quali, per contro, si discosterebbe per un’unica quanto subdola differenza. Se è vero che per la maggior parte delle “addiction”, infatti, ad un certo punto interviene una causa frenante esterna (ad esempio, nel caso della droga, la mancanza di denaro per procurarsela), l’accesso compulsivo a smartphone e social non conosce freni.
Il punto è: la situazione è davvero così catastrofica come la descrive The Guardian? Siamo realmente a un punto di non ritorno che ci rende enormemente più edonisti e al tempo stesso più infelici? Si è davvero ribaltato un processo secondo il quale non siamo più noi a dominare il mezzo ma ne siamo, patologicamente, dominati? Ad esprimere ai nostri microfoni il suo punto di vista è il professor Federico Tonioni, psichiatra presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Responsabile Area delle Dipendenze da Sostanze e Dipendenze Comportamentali presso il Policlinico Gemelli di.
«Credo che toni così allarmistici siano al momento ingiustificati – spiega Tonioni – perché oggi, soprattutto per gli adolescenti, l’iperconnessione non è una dipendenza, è un diritto. È la nuova realtà in cui, volente o nolente, siamo calati, è il nuovo modo di comunicare, stabilire reti sociali, costruire un’identità. Sempre parlando dei giovanissimi, si tratta di una generazione nativa digitale, da sempre immersa in un ambiente altamente interattivo. Ridurre questi fenomeni a “dipendenza” – prosegue lo psichiatra – significa demonizzare il cambiamento e non accettare la realtà. Una realtà che, invece, stimola altamente il profilo cognitivo, seppur in maniera differente rispetto a ciò cui eravamo abituati».
«Proprio nelle scuole dovrebbe essere dato più spazio agli strumenti digitali per supportare i ragazzi con disturbi di apprendimento. Per quanto riguarda gli adulti, anche qui credo che una sorta di compulsività sia semplicemente passata dallo zapping col telecomando allo scrolling dello smartphone. Niente di nuovo insomma, abbiamo solo sostituito certe abitudini con altre».
«Anche la solitudine è un diritto, il ritagliarsi momenti per sé. E questo – afferma Tonioni – indipendentemente dal modo in cui lo facciamo, non incide sulla nostra capacità di essere dei bravi genitori o partner, che passano per tanti altri fattori. Viceversa, un genitore che non ha piacere nel giocare con un figlio, una moglie che non ha piacere nel condividere qualcosa con il marito, troveranno mille e uno motivi o diversivi per non farlo. Immergersi nei social o nel proprio smartphone sarà solo una scusa come un’altra».
«L’allarme scatta quando si assiste al ritiro sociale – continua lo psichiatra -. Nel caso degli adolescenti alla sindrome Hikikomori, e in generale a una sofferenza psicologica. Ma in questi casi il problema non è l’oggetto della dipendenza, è il disagio psicologico che ne è alla base. Gli adulti che non riescono mai a disconnettersi probabilmente hanno una depressione latente. L’alienarsi in una vita virtuale, così come rifugiarsi nelle droghe o nell’alcol, altro non sono che la punta di un iceberg, il mezzo attraverso cui sfogare un disagio che ha radici molto più profonde. Si tratta spesso, per contro, di ragazzi che nonostante le enormi difficoltà scolastiche sono quasi madrelingua inglesi (la lingua ufficiale dei videogiochi). Ed è emblematico – conclude Tonioni – il dato per il quale i soggetti “incastrati” in una realtà virtuale non hanno quasi mai un account Facebook o Whatsapp».
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