La chiave del successo inglese: un lockdown incisivo «pianificato e temporizzato» e una vaccinazione rapida ed efficace. L’intervista a Paolo Vineis, professore di epidemiologia all’Imperial College di Londra e vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità
Il governo italiano mantiene la road map annunciata da Draghi, con progressive riaperture a partire dal 26 aprile, sebbene i numeri dei nuovi casi e dei decessi Covid siano ancora alti. Il premier ha annunciato la ripresa delle attività parlando di un “rischio ragionato”. «La mia opinione personale è che sarebbe stato utile un lockdown severo per portare i casi molto vicini allo zero» dichiara Paolo Vineis, professore di epidemiologia all’Imperial College di Londra e vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità, a Sanità Informazione.
«Quello che mi pare non funzioni tanto – aggiunge il professore – è modulare le chiusure e le riaperture a seconda dell’andamento delle terapie intensive e della situazione ospedaliera, rispetto ad un lockdown incisivo seguito da un altrettanto incisivo contact tracing (oltre ovviamente a un’intensificazione della campagna vaccinale). Nella strategia italiana, che definisce il colore delle regioni tramite i 21 indicatori, il fine fondamentalmente è ridurre il sovraccarico delle terapie intensive e la mortalità attraverso una modulazione delle riaperture, che però rischia di mantenere una lunga coda, una specie di altopiano, dell’epidemia».
L’attuale situazione epidemiologica italiana presenta differenze sostanziali rispetto ad altri Paesi europei. L’Inghilterra, ad esempio, segnala un drastico calo della curva pandemica, conseguenza di una campagna vaccinale da record. Attualmente, ha un numero di decessi e di nuovi casi molto limitato: ieri ci sono stati quattro morti e 2963 contagi. «È difficile dare pareri a posteriori, nessuno ha un modello perfetto» precisa il professore tentando, però, di individuare quali scelte si siano rivelate vincenti.
«L’Inghilterra attraverso la combinazione tra lockdown e rapida vaccinazione delle categorie a rischio, degli anziani – partendo dagli ultraottantenni e scendendo via via verso il basso – e dei fragili, è riuscita ad arrivare a numeri molto bassi» evidenzia Vineis.
«Stesso discorso vale per Israele, un altro Paese che si è comportato molto meglio di altri in queste ultime settimane. Non va dimenticato però che Israele è un Paese piccolo e tra l’altro ha fatto una scelta eticamente molto criticabile, quella di non vaccinare inizialmente i palestinesi».
In Italia, invece, l’errore di molte Regioni è stato distribuire i vaccini alle categorie professionali senza seguire la priorità dell’età «per cui esistono giovani di trent’anni vaccinati e ultraottantenni ancora scoperti» ricorda Vineis.
Un altro aspetto interessante del piano inglese consiste nel fatto che il lockdown incisivo è stato «pianificato e temporizzato». Dare scadenze temporali precise ha permesso ai commercianti e agli industriali di regolarsi: «In Italia siamo troppo a ridosso all’epidemia – evidenzia Vineis -. C’è una tendenza a decidere non dico giorno per giorno ma quasi. Una maggiore pianificazione avrebbe permesso di abbassare i numeri del contagio e dei decessi e consentirebbe di tracciare i contatti dei casi e tenere sotto controllo i focolai».
L’altra peculiarità dell’Inghilterra è stata vaccinare più persone possibili con una sola dose di vaccino e di posticipare di tre mesi la seconda. Questo, nel più breve tempo possibile. «È stata una scommessa. Ad oggi, il ritardo della seconda dose per AstraZeneca sembra che funzioni e ci sono dei dati a supporto. Diverso il caso di Pfizer. La decisione inglese è stata molto pragmatica – sottolinea il professore –. Offrire il vaccino al maggior numero di persone possibile, anche solo con una prima dose, ha permesso di salvare letteralmente molte persone anziane e fragili dalla morte o dalla malattia grave».
«I rischi, per cui la decisione è stata molto criticata, erano di due tipi: il primo è che, in linea di massima, non ci si dovrebbe discostare da quello che mostrano le sperimentazioni cliniche controllate, e le sperimentazioni erano state fatte con un intervallo di 21 giorni (Pfizer) rispetto alla prima dose; quindi è una deviazione dal protocollo. Il secondo è che un’immunizzazione parziale può facilitare la selezione di nuove varianti – evidenzia – e quello che temiamo di più è la comparsa di varianti resistenti ai vaccini come quella sudafricana. È più facile – prosegue Vineis – che varianti virali scappino dalla risposta immunitaria (si chiama proprio escape). Se c’è una forte reazione immunitaria è più difficile che emergano delle nuove varianti; se la risposta immunitaria è debole, si selezionano più facilmente varianti mutate. Ma non credo che l’estensione a 42 giorni proposta dall’Aifa costituisca un pericolo».
La scommessa dell’Inghilterra, specchio di una cultura più concreta, «per il momento sembra vinta ma poteva andare male – ammette il professore -. Anche in Inghilterra, originariamente, c’è stato lo stesso dibattito che c’è adesso in Italia ma in quell’occasione il Chief Medical Officer ha insistito sulla sua decisione nonostante fossero state sollevate critiche, soprattutto da parte della associazione dei medici di medicina generale» sostiene Vineis.
E sulla preoccupazione riguardo ai vaccini a vettore virale, Vineis si allinea con l’Aifa: «La trombosi venosa encefalica con trombocitopenia è una malattia estremamente rara, parliamo di pochi casi su un milione, il rischio è molto inferiore rispetto al decorso clinico del Covid-19. Queste manifestazioni si sono verificate in persone giovani – aggiunge il professore –, da qui la scelta di somministrare il vaccino sopra i 60 anni. Per questa fascia d’età c’è minore evidenza di effetti collaterali al momento attuale. Rilevo un atteggiamento molto precauzionale – spiega –, e mi auguro si trovino modalità per individuare precocemente gli effetti collaterali quando si manifestano e riuscire a trattarli efficacemente. Ma al di là di questo – rimarca Vineis – il rischio dell’effetto collaterale è enormemente inferiore rispetto al beneficio della vaccinazione, sicuramente sopra i 60 anni. Uno studio dell’università di Cambridge sul rapporto rischi-benefici per AstraZeneca dimostra che i secondi superano sempre i primi tranne in persone molto giovani e a basso rischio di contrarre l’infezione».
Il grande pregio dei vaccini a mRNA rispetto a quelli a DNA a vettori adenovirali «è la duttilità con cui si possono modificare nei confronti delle varianti. Sono stati una grossa scoperta – conclude il professore -, sono derivati dalla ricerca di un vaccino contro il cancro e si è riusciti a modificarli perché fossero efficaci contro SARS-CoV-2».
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