Ricoveri ed esami ridotti in due ospedali su tre e rischio cardiaco più alto per i guariti. Allerta massima su mortalità infarti e ictus: «Rischiamo di tornare indietro di 20 anni»
La pandemia di Sars-CoV-2 ha ridotto a brandelli l’assistenza cardiologica in Italia. È questo, in sintesi, l’allarmante messaggio emerso dalla survey condotta dalla Società Italiana di Cardiologia (SIC) che ha preso in esame 45 ospedali italiani riscontrando un calo del 68% su interventi e ricoveri, del 50% su esami diagnostici e del 45% sulle visite ambulatoriali. E, come se non bastasse, una contrazione dei posti letto in TI cardiologica pari al 22%.
Ma non sono solo questi i numeri a preoccupare la maggiore società di cardiologia in Italia: da uno studio recentemente pubblicato su Nature, che ha messo a confronto più di 150.000 pazienti guariti dal Covid-19 confrontati con oltre 5 milioni di controlli su pazienti sani infatti, è emerso che indipendentemente dal grado di gravità dell’infezione i pazienti ex Covid-19 presentano un rischio aumentato di sviluppo di problemi cardiovascolari, con circa il 52% di probabilità in più di ictus e il 72% di rischio in più relativamente allo scompenso cardiaco, vale a dire 12 casi in più ogni 1000 pazienti ex Covid-19.
I dati di cui sopra sono stati oggetto di riflessione da parte del professor Ciro Indolfi, presidente SIC, e del prof. Pasquale Perrone Filardi, presidente eletto SIC, durante la conferenza stampa sul tema tenutasi stamattina in modalità online.
«Se nella prima ondata la massiccia operazione di reclutamento di posti disponibili per pazienti Covid-19 era giustificata – osserva il prof. Ciro Indolfi, presidente SIC – oggi a fronte delle caratteristiche della variante Omicron ormai prevalente e dell’attuale scenario epidemiologico, non lo è più. Per contro – prosegue – siamo oggi di fronte ad una organizzazione sanitaria che penalizza enormemente l’accesso alle cure dei pazienti cardiovascolari. Da un lato, questi sono aumentati a causa delle conseguenze cliniche del Covid-19 e alla diminuzione della possibilità di effettuare esami diagnostici durante il periodo pandemico. Dall’altro, il personale è ridotto sempre più all’osso anche a causa dei contagi.
necessario oggi attuare azioni correttive – aggiunge Indolfi – perché le patologie cardiovascolari continuano ad essere la prima causa di morte in Italia e nel mondo. In caso di contrario, rischiamo di vanificare gli straordinari sviluppi che hanno caratterizzato questa branca della medicina negli ultimi 20 anni, ritornando a livelli di mortalità per infarto superiori del 40% rispetto al periodo pre-pandemico. Un monito particolare alle donne – sottolinea – perché i dati ci dicono che la loro paura più grande è ammalarsi di tumore, tuttavia muoiono molto più spesso per patologie cardiovascolari. La prevenzione è essenziale – conclude Indolfi – considerando che l’infarto del miocardio nelle donne si manifesta in modo più subdolo, con sintomi gastrointestinali, astenia, affanno, rispetto ai classici segnali facilmente riconoscibili, più frequenti nell’uomo, come dolore al braccio e al petto e senso di costrizione».
«Oltre che causa di morte, le malattie cardiovascolari costituiscono anche la causa più frequente di disabilità nel nostro Paese – commenta il prof. Pasquale Perrone Filardi, presidente eletto SIC. – La prevenzione – prosegue – resta un’arma fondamentale, purtroppo durante il lockdown le persone hanno peggiorato i loro stili di vita, con una maggiore sedentarietà, aumento di peso, maggiore consumo di alcol, predisponendosi maggiormente al rischio di sviluppare queste patologie. Nella fase iniziale dell’emergenza, nel 2020, abbiamo avuto effetti disastrosi a causa della riduzione del 50% di ricoveri per infarto, con un aumento triplicato della mortalità intraospedaliera per infarto. E non dimentichiamo che gli stati depressivi e l’ansia, condizioni in aumento durante la pandemia, sono anch’essi predisponenti a un rischio aumentato di patologie cardiovascolari. È necessario – sottolinea Perrone Filardi – che il Governo intervenga sul criterio delle Regioni a colori, laddove questi si basano anche sul numero di posti Covid-19 a disposizione. Sicuramente l’aver avuto un CTS ad esclusiva rappresentanza infettivologica ha fatto sì che il Covid-19 diventasse fagocitante rispetto a tutte le altre patologie. L’auspicio è che – conclude – se la situazione epidemiologica in futuro dovesse richiederlo, questa metodologia venga abbandonata».
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