Campanini (psicologo del lavoro): «Che per valorizzarsi non sia necessario dedicare l’intera vita al lavoro è una convinzione sempre più diffusa, soprattutto tra i più giovani. La trasformazione del mondo del lavoro, da stabile a flessibile, era già in corso, ma l’esplosione della pandemia ne ha accelerato l’evoluzione»
Lavorare per vivere o vivere per lavorare? I giovani d’oggi non hanno dubbi: il lavoro non può essere totalizzante, deve lasciare spazio al tempo libero da dedicare a famiglia, amici e hobbies. Così, per trasformare i desideri in fatti, sempre più persone optano per la “great resignation”, ovvero la dimissione volontaria. Solo in Italia, lo scorso anno, due milioni di individui hanno rinunciato al proprio impiego per cercarne un altro, non solo meglio retribuito, ma soprattutto più flessibile.
«Che per valorizzarsi non sia necessario dedicare l’intera vita al lavoro è una convinzione sempre più diffusa, soprattutto tra i più giovani – spiega Paolo Campanini, psicologo del lavoro e psicoterapeuta –. La trasformazione del mondo del lavoro, da stabile a flessibile, era già in corso, ma l’esplosione della pandemia ne ha accelerato l’evoluzione. Durante i ripetuti lockdown tutti si sono ritrovati a vivere 24 su 24 all’interno della propria casa, accanto alle persone più care. E per molti questa esperienza è stata rivelatrice: tanti hanno capito di non voler più trascurare affetti e interessi personali in nome della propria realizzazione professionale».
Così, negli ultimi mesi, molte aziende, soprattutto le più grandi, si stanno armando contro la “great resignation”. Per fermare la fuga di lavoratori hanno chiesto aiuto allo psicologo del lavoro, una figura professionale che, grazie ad una formazione specifica, è in grado di intervenire in diversi ambiti aziendali. «Lo psicologo del lavoro – dice Campanini – può occuparsi dell’organizzazione dell’impresa, della definizione dei diversi ruoli e competenze interne all’azienda. Possiede gli strumenti giusti per motivare i dipendenti, valutare e promuovere la performance. Ancora, attraverso il suo intervento, può migliorare il clima organizzativo, aumentare il livello della soddisfazione dei dipendenti della loro qualità di vita all’interno della sede di lavoro. Poi, cogliendo tutti gli eventuali elementi di difficoltà e di tensione presenti nell’ambiente lavorativo può proporre e mettere in atto soluzioni per attenuarli o eliminarli».
In questo periodo di grande trasformazione del mondo del lavoro, gli interventi dello psicologo del lavoro appaiono ancora più cruciali. «Se da un lato lo psicologo del lavoro può aiutare il lavoratore ad integrarsi al meglio nel suo ambiente professionale, adattando gli impegni professionali alla sua vita extra-lavorativa (e non viceversa), dall’altro è un importante supporto anche per i vertici aziendali – sottolinea lo psicoterapeuta -. Pure i dirigenti e i proprietari devono adattarsi al cambiamento in atto, promuovendo la flessibilità e le modalità di lavoro ad essa correlate. Chi ha sperimentato lo smartworking durante la pandemia, in molti casi, non è più disposto a tornare indietro. È difficile rinunciare alla comodità del lavoro da casa, per ricatapultarsi nel caos e nel traffico che, fino a due anni fa, si era costretti a sopportare ogni mattina per arrivare a lavoro», aggiunge l’esperto.
Da quasi tre anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente riconosciuto il burnout come una sindrome (non è una malattia, ndr) conseguente a stress cronico sul posto di lavoro. Senso di esaurimento, debolezza, aumento dell’isolamento e ridotta efficacia professionale sono le principali caratteristiche individuate dall’Oms affinché si possa parlare di sindrome da burnout. «Potremmo definire il burnout come una sorta di pericolo, un campanello di allarme che ci mette in guardia sul rischio di sviluppare una patologia vera e propria – dice lo psicoterapeuta – È, di solito, il disturbo dell’adattamento a trasformarsi in ansia e depressione. Quanto più sarà intenso e prolungato nel tempo lo stress a cui si è sottoposti, tanto più la sintomatologia potrà cristallizzarsi e dar luogo ad una patologia cronica. E quando una malattia si cronicizza anche eliminare la causa originaria, come in questo caso può esserlo il lavoro, la patologia, purtroppo, non sparirà».
Tuttavia, in situazioni di forte stress, allentare la presa, pur non rappresentando la soluzione definitiva, può donare almeno un po’ di benessere. «Durante i ripetuti lockdown quasi tutti (fatta eccezione di chi ha continuato a lavorare in prima linea per contrastare la pandemia) hanno modificato la propria routine. Abbassare i ritmi quotidiani per molti ha significato comprendere quanto nociva fosse la frenesia a cui si era precedentemente abituati. La pandemia ha permesso a molte persone di fermarsi ad osservare ciò che avevano intorno, di capire quanto lo stare in famiglia potesse essere piacevole. E, soprattutto – conclude lo psicologo – che la vita va oltre il lavoro e che può avere un senso esistere anche senza averne uno».
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