Scoperto il complesso meccanismo cerebrale che spiega il perchè i farmaci mirati a migliorare la memoria a breve termine funzionano solo se a dosaggi bassi. A scoprirlo è uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, coordinato dall’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc) e condotto congiuntamente con l’Istituto di genetica e biofisica (Igb) del Cnr, con l’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) e con i Dipartimenti di farmacia, di biologia e di studi umanistici dell’Università Federico II di Napoli. La ricerca è stata supportata anche dal progetto MNESYS finanziato dal Ministero dell’università e della ricerca, Piano nazionale di recupero e resilienza.
La memoria di lavoro è una memoria di breve durata – da pochi secondi a qualche minuto -, quella che utilizziamo per esempio per ricordare la lista della spesa giornaliera e che viene poi cancellata. La memoria di lavoro permette, quindi, di manipolare un numero limitato di elementi in un breve intervallo di tempo ed è importante nell’elaborazione dei ragionamenti complessi. Molti disturbi psichiatrici e neurologici, come la schizofrenia, come la riduzione della capacità della memoria di lavoro. Ad oggi non sono disponibili farmaci in grado di accrescere questa capacità in persone sane o di migliorarla in pazienti che hanno deficit.
Sappiamo che i farmaci dopaminergici, in particolare quelli che stimolano i recettori D1 della dopamina, sostanza chimica che svolge un ruolo cruciale nella comunicazione tra cellule nervose del cervello, possono migliorare la memoria di lavoro, ma solo se somministrati a basse dosi, mentre, se il dosaggio aumenta, nei pazienti si verifica un peggioramento. “Il nostro studio – spiega Elvira De Leonibus del Cnr-Ibbc e del Tigem – ha rivelato che una dose bassa dei farmaci dopaminergici può espandere la memoria oltre il suo limite normale, agendo su una regione sottocorticale: lo striato. Tuttavia, se si alza la dose dello stesso farmaco, si ottiene l’effetto opposto: la memoria peggiora”.
“Questo avviene perché all’aumentare della dose, il farmaco – afferma Leonibus – attiva lo stesso sistema di segnalazione in un’altra regione del cervello, la corteccia prefrontale, che svolge una funzione superiore in termini di controllo, e l’attivazione della corteccia prefrontale ‘spegne’ lo striato, causando un deficit di memoria. Attraverso tecniche avanzate di manipolazione dei circuiti cerebrali e di identificazione dei sistemi di segnalazione, abbiamo dimostrato che, inibendo il circuito attraverso cui la corteccia prefrontale interagisce con lo striato è possibile prevenire gli effetti deleteri delle dosi elevate del farmaco. Quindi, l’effetto del farmaco va studiato a livello di circuiti cerebrali non del suo singolo bersaglio, perché le regioni del cervello sono tutte interconnesse”.
Lo studio è importante per le sue ricadute nell’ambito della psicofarmacologia, evidenziando aspetti fondamentali nel settore clinico. “Nella stessa ricerca abbiamo dimostrato che le stesse dosi basse di farmaco che espandono la memoria in soggetti normali, migliorano anche i deficit di memoria in un modello animale di schizofrenia“, sottolinea Leonibus. “Il nostro studio mostra come aumentare le dosi di un farmaco non equivale a migliorarne l’efficacia, al contrario, può attivare strutture e circuiti cerebrali diversi, producendo effetti paradossali. Dunque, la scelta dei farmaci antipsicotici – continua – deve tenere conto dei circuiti, non solo delle singole regioni cerebrali. Questa complessità richiede un’analisi approfondita finalizzata a sviluppare farmaci intelligenti, ossia a progettare molecole capaci di adattarsi allo stato di attivazione del circuito su cui agiscono”.
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