«La maggior parte continua ad avere problemi respiratori ma ci possono essere conseguenze neurologiche – spiega il professor Corsico -. Anche in pazienti che hanno gestito la malattia a casa riscontriamo effetti a livello polmonare nonostante l’infezione sia stata superata senza la necessità di un ricovero»
Hanno sconfitto la malattia da mesi e vorrebbero tornare alla vita di prima ma per loro il Covid non è ancora un brutto ricordo. Sono i pazienti dichiarati guariti dal SARS-CoV-2 ma che continuano a presentare sintomi debilitanti: stanchezza cronica, fiato corto, scarsa memorizzazione, insonnia e, soprattutto, problemi respiratori.
In molti ospedali sono stati costituiti ambulatori specifici per monitorare le vittime del Long Covid con esami obiettivi. Il professor Angelo Maria Corsico, Direttore dell’Unità operativa complessa di pneumologia del Policlinico San Matteo di Pavia, tira le file di un anno di Covid-19 tra effetti a lungo termine, terza ondata e nuove varianti.
«Ci sono delle sequele che possono rimanere dopo l’infezione da SARS-CoV-2. Ce l’aspettavamo perché le precedenti infezioni da SARS avevano fornito dati simili. Circa un terzo dei pazienti che necessitano di ospedalizzazione può avere delle conseguenze a lungo termine a livello polmonare che possono essere documentate radiologicamente e anche dalle prove di funzionalità respiratoria. Ma anche in pazienti che hanno gestito la malattia a casa e poi vengono in ospedale per una visita pneumologica richiesta da un MMG, riscontriamo delle conseguenze a livello polmonare nonostante l’infezione sia stata superata senza la necessità di un ricovero. Quello che può conseguire è una fibrosi polmonare che però non è una fibrosi progressiva, quindi grazie al tempo e alle terapie è suscettibile di un certo grado di miglioramento. Gli effetti riscontrati in modo più eclatante sono a livello polmonare perché è l’organo bersaglio del virus. La maggior parte dei pazienti continua ad avere problemi respiratori ma ci possono essere anche delle conseguenze neurologiche».
«Presso il San Matteo di Pavia è attivo un ambulatorio post Covid che intercetta i pazienti tre mesi dopo le dimissioni. In questo ambito vengono fatti i classici esami cardiologici, la spirometria, l’esame radiografico del torace e l’ecografia del torace. Ci sono alcuni soggetti con sequele non trascurabili che vengono agganciati e seguiti nel tempo, sottoposti eventualmente alle Tac e ad altri esami specifici in modo individuale. In questo caso non c’è più un percorso strutturato, a seconda delle esigenze, ci si fa carico del problema».
«La terza ondata che stiamo vivendo si è inserita sulla coda della seconda e ricorda molto la prima, in termini di pressione sulle strutture ospedaliere, sui pronto soccorso e sui reparti di degenza. Stiamo assistendo a un afflusso importante, la differenza sostanziale rispetto alla prima e alla seconda ondata è che in quei casi noi partivamo da un numero di pazienti con Covid già ricoverati sia nei reparti che in terapia intensiva che era molto vicina allo zero. Chiaramente nella prima ondata non ce n’erano e nella seconda avevamo ormai completamente svuotato i reparti dopo l’estate. Adesso, invece, questa ondata si inserisce in una situazione nella quale ci sono ancora dei degenti che erano stati infettati nella seconda ondata».
«Le manifestazioni della malattia sono gli stessi: nei pazienti che necessitano di ricovero c’è un interessamento polmonare con una polmonite interstiziale generalmente bilaterale che è la caratteristica di questa infezione virale. Poi, ci può essere l’interessamento di altri organi. Fortunatamente, oggi abbiamo una maggiore esperienza nel gestire questi pazienti sia negli ospedali che sul territorio. È più semplice, sia pure nella complessità della situazione, prenderli in carico e gestirli. Nella prima ondata ci sono stati momenti in cui avevamo quasi tutti i pazienti con il casco per risolvere l’insufficienza respiratoria, oggi non è così. I pazienti vengono trattati prima e guariscono prima e meglio».
«L’impatto delle varianti lo conosciamo dal punto di vista epidemiologico ma non sul singolo paziente perché non tutti i tamponi vengono sequenziati. Per conoscere a pieno tutte le nuove varianti sarebbe necessario un sequenziamento ma questo al momento non è un obbiettivo raggiungibile, sarebbe uno sforzo eccessivo per i laboratori e provocherebbe un rallentamento nei tempi per ottenere il risultato dei tamponi. Individuare la variante è utile soprattutto dal punto di vista epidemiologico per cercare di contenere i focolai: se si allungano i tempi per avere le risposte dei tamponi questo obbiettivo viene meno. E’ inutile dare una risposta di un sequenziamento dopo una settimana perché a quel punto non è più possibile contenere il focolaio. La strategia che consigliamo di seguire è di chiedere un sequenziamento ad una piccola percentuale di tamponi che servono esclusivamente a dare un segnale, quindi ad individuare i focolai delle varianti più note, quella inglese, quella brasiliana e quella sudafricana».
«Dal punto di vista clinico, una volta che il paziente viene ricoverato, la variante inglese non sembra avere una maggiore gravità. Secondo i dati epidemiologici, però, ha una maggiore velocità di trasmissione, quindi aumenta il numero dei contagiati. E se aumenta il numero totale dei pazienti contagiati aumenta, di pari passo, anche il numero totale delle vittime».
«I dati disponibili ci confermano che sia gli anticorpi naturali che si sono sviluppati a seguito di una prima infezione da coronavirus con la variante non mutata sia quelli che si sviluppano dopo la vaccinazione sono protettivi contro la variante inglese. L’unica preoccupazione che abbiamo in questo momento è che aumenta il numero dei contagiati e le varianti hanno una maggiore capacità di diffondere».
«All’inizio avevamo notato un’età più giovane rispetto alle ondate precedenti, ma gli ultimi ricoveri sono ancora di pazienti anziani. Vaccinare le persone anziane è importante non tanto perché questo arresta la circolazione del virus ma perché protegge gli ospedali da un sovraccarico di lavoro».
«Nuovamente infettati direi di no; ci sono stati casi di pazienti che non avevano risolto completamente e che sono risultati nuovamente positivi a distanza di tempo e dopo aver avuto più tamponi negativi. Si tratta del riemergere dell’infezione che non era stata completamente risolta. C’è anche da dire che i tamponi molecolari sono talmente sensibili che sono in grado di trovare tracce del virus anche quando questo è inattivato. Può essere che l’infezione, di fatto, sia superata ma che rimangono ancora le tracce della battaglia che c’è stata. Non è una ricaduta, il virus non è più attivo ma non è stato smaltito dall’apparato respiratorio e se ne trovano i segni».
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