Lo raccontano la moglie Giovanna e le due figlie. A 26 anni dalla sua scomparsa, il Policlinico Agostino Gemelli di Roma, di cui ha contribuito a costruire i reparti chirurgici e le sale operatorie, ha deciso di dedicare al professor Castiglioni un’aula
“Il medico ha il dovere civile di far sentire e seguire la sua voce, non già, come capita, per proclamare particolari interessi egoistici, ma per difendere gli scopi della medicina di domani, di cui egli deve continuare ad essere protagonista e responsabile”. Scriveva questo il professor Gian Carlo Castiglioni nel 1966 ai medici di domani. Eccellente chirurgo, grande sperimentatore, ma soprattutto uomo. A 26 anni dalla sua scomparsa il Policlinico Agostino Gemelli di Roma, di cui ha contribuito a costruire i reparti chirurgici e le sale operatorie, ha deciso di dedicargli un’aula.
«Per lui erano tutti uguali i malati, erano allo stesso livello». Lo ricorda la moglie Giovanna che insieme ai figli Matilde, Giovanni e Elisabetta hanno partecipato alla cerimonia d’intitolazione. Nato il 4 febbraio del 1921, si laureò all’Università di Milano nel 1946. Si spostò prima a Padova, come primo aiuto del professor Pettinari, in seguito volò oltreoceano per raggiungere l’Università della Pennsylvania, a Philadelphia. Dall’America rientrò portando con sé la macchina per l’ossigenazione extracorporea nella chirurgia a cuore aperto.
Tra le tappe della sua significativa carriera figurano il primo trapianto di rene nel lontano 1970 e il primo trapianto epatico nel 1986. «Quando ha cominciato a fare i trapianti qui a Roma – racconta ancora la moglie – questa ragazza gli aveva scritto una poesia bellissima» per ringraziare il professore dell’intervento eseguito con successo. «Faceva venire gli organi dal centro dell’Europa grazie all’Alitalia che collaborava con lui».
In pochi ricordano, inoltre, che il professor Castiglioni fu nell’equipe che eseguì il delicato intervento che salvò la vita a Giovanni Paolo II, ferito durante un attentato. «Quella è stata l’operazione più facile, perché è stata un miracolo» ricorda Giovanna. «Mi ha detto: “Ho messo il dito dentro la vertebra perforata dalla pallottola. Non è stato alterato nessun vaso sanguigno, niente”. Non era una situazione tragica, era solo l’emozione».
«Il mio papà l’ho vissuto poco da piccola perché ero sempre fuori a fare interventi» ricorda la figlia Elisabetta. Eppure, quando c’era «giocavamo, correvamo insieme. Era un appassionato di dolci». Un padre affettuoso che Elisabetta non ha mai identificato con il professore emerito. «Il primo momento in cui ho veramente capito chi fosse è stata durante la lettura di parte della sua prolusione al suo funerale. Come lo ricordavano i colleghi: un uomo dotato di una profonda umanità, dotato di una deontologia professionale incredibile, in cui la coscienza era al servizio della scienza». Proprio alla scienza e alla cura del paziente ha dedicato tutta la sua vita. Tra i suoi interessi scientifici spiccano gli studi per la chirurgia del surrene, del colon e infine del pancreas, di cui scrisse un importante trattato uscito postumo.
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