In passato è stato suggerito di non mangiare agrumi e pomodoro, non consumare caffè, menta, cioccolato, cipolla, aglio e altro. Oggi possiamo dire che tutto questo non è mai stato supportato da evidenza scientifica
Nel mondo, quasi il 25% della popolazione lamenta sintomi imputabili alla malattia da reflusso gastroesofageo almeno due o più volte per settimana. In Italia la percentuale è più o meno simile, con un’oscillazione tra il 23 e il 26%. Bruciore retrosternale o pirosi, rigurgito e percezione di dolore retrosternale sono i sintomi maggiormente descritti, dovuti al passaggio retrogrado di contenuto gastrico nell’esofago, o come dicono gli anglosassoni, “too acid in the wrong place”, cioè troppo acido nel posto sbagliato. “I soggetti che ne soffrono non sono ipersecretori di acido ma hanno praticamente una perdita dei fisiologici meccanismi che impediscono il passaggio di contenuto gastrico nell’esofago – spiega Nicola De Bortoli, professore di Gastroenterologia dell’Università di Pisa -. Tutti noi abbiamo una minima quantità di reflussi durante la giornata, che sono fisiologici e come tali non sono percepiti. Quando si sviluppano sintomi questi devono essere indagati per ottenere una diagnosi per quanto possibile precisa e corretta”. Fra i fattori di rischio della malattia da reflusso gastroesofageo si annoverano il sovrappeso, l’obesità e il fumo di tabacco.
In occasione del XXX Congresso Nazionale delle Malattie Digestive, a cura della Federazione italiana delle società delle malattie dell’apparato digerente (Fismad), in corso a Roma dall’11 al 13 aprile, verranno illustrate le più recenti linee guida della Consensus di Lione (giunta alla versione 2.0), che coinvolge come italiani co-autori lo stesso De Bortoli e il professor Edoardo Savarino dell’Università degli Studi di Padova. Queste invitano ad eseguire una diagnosi oggettiva della malattia da reflusso gastroesofageo e una terapia medica con inibitori di pompa protonica solo per i pazienti realmente affetti. Per questo, le stesse Linee guida parlano di “Actionable GERD”, ovvero eseguire una diagnosi corretta della malattia, basata su parametri oggettivi e quindi ritagliare al meglio la terapia per ogni singolo paziente.
“Dal punto di vista alimentare – osserva il professor De Bortoli – diciamo che nel corso degli anni è stata consigliata l’eliminazione di alimenti definiti “trigger” in modo abbastanza opinabile. In passato è stato suggerito di non mangiare agrumi e pomodoro, non consumare caffè, menta, cioccolato, cipolla, aglio, etc. Oggi possiamo dire che tutto questo non è mai stato supportato da evidenza scientifica. Le recenti linee guida statunitensi dell’American College of Gastroenterology ci dicono che non ci sono degli alimenti trigger per definizione, piuttosto il soggetto deve individuare nella propria alimentazione quelli che sono i cibi che gli evocano più facilmente i sintomi e quindi eliminarli o ridurne il consumo”.
In primo luogo, se seguissimo davvero la dieta Mediterranea e le indicazioni alimentari dell’Oms sul consumo di frutta e verdura, teoricamente avremmo tassi di prevalenza della malattia più bassi. Poi, sulla base dei dati scientifici, possiamo affermare che un ridotto apporto di proteine animali nella nostra dieta (senza distinguere tra carne rossa e bianca) sia consigliabile, come pure un uso moderato di vino (125 ml a pasto) non presenta controindicazioni. “Quel che è certo – osserva il docente – è che un elemento importante è il peso corporeo. Se un soggetto è affetto da sovrappeso come primo approccio deve necessariamente ridurre, anche solo del 10% in sei mesi, il peso corporeo per guadagnare un migliore controllo dei sintomi e una riduzione della necessità del consumo di farmaci”.
Le Linee guida internazionali sottolineano che le persone con pirosi, rigurgito e dolore toracico possono essere inquadrate come soggetti potenzialmente affetti da malattia da reflusso, dove però è determinante che il dolore toracico non sia di origine cardiaca, escludendo patologie cardiovascolari. Già il medico di medicina generale può suggerire una terapia cosiddetta di primo livello con inibitori di pompa protonica a dose standard per 4-8 settimane, se ha pirosi, rigurgito e dolore toracico. Terapia che comunque va ridotta nel giro di un paio di mesi mediante un lento e progressivo tapering. “Nel caso il soggetto vada incontro ad una recidiva – continua il professore –, è necessario fare una diagnosi oggettiva che prevede la prescrizione, previa visita gastroenterologica, di un’endoscopia digestiva superiore da eseguire dopo la sospensione di farmaci inibitori di pompa protonica per almeno 3-4 settimane. In caso di endoscopia negativa, dobbiamo approfondire il quadro mediante esami di fisiopatologia esofagea. Se invece il soggetto dopo l’endoscopia presenta una diagnosi di esofagite medio-severa (Classificazione di Los Angeles di grado B, grado C e D) allora si può confermare la diagnosi. In alternativa, il soggetto deve eseguire una manometria esofagea e una pH-impedenzometria delle 24 ore, al fine di evidenziare la presenza di una esposizione patologica all’acido”.
La terapia chirurgica ha un ruolo importante, soprattutto grazie a due tipologie d’intervento che hanno confermato la loro efficacia a distanza di più di cinque anni. La chirurgia ad oggi è sicuramente la prima opzione nei pazienti affetti dalla malattia da reflusso di tipo refrattario, ovvero in coloro che presentano sia i sintomi sia l’esposizione patologica all’acido, nonostante una ottimale terapia medica anti-reflusso.
Nel corso degli anni è stata dimostrata da alcuni studi eseguiti mediante utilizzo di questionari sintomatologici – e poi vista nella realtà -, la sovrapposizione della malattia da reflusso gastroesofageo con la sindrome dell’intestino irritabile oppure con la dispepsia. “Infine – conclude il professor de Bortoli – quando i pazienti presentano una sintomatologia extra-esofagea (tosse, raucedine, globo faringeo, mal di gola, etc..) dovremo in prima istanza escludere altre cause e poi indagare l’eventuale presenza di una malattia da reflusso”.
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