I risultati di una ricerca condotta dall’Università di Glasgow associano la pratica agonistica di sport di contatto a un maggior rischio di sviluppare demenza, Sla e Parkinson. L’intervista al neurologo Massimo Napolitano (Ospedale Cardarelli di Napoli)
I benefici dell’attività sportiva sulla salute, a livello amatoriale ed agonistico, sono innumerevoli: dalla diminuzione del rischio di malattie cardiovascolari a quelle oncologiche, e di tutti i disturbi legati ad uno stile di vita sedentario. Tuttavia, un campanello d’allarme su un maggiore rischio di sviluppo di patologie neurodegenerative per chi pratica sport di contatto come il calcio, è stato lanciato da un recente studio condotto dall’Università di Glasgow e pubblicato sul New England Journal of Medicine. Secondo i dati di questo studio infatti, condotto esaminando le cartelle cliniche di 7.676 ex calciatori scozzesi comparandole con quelle di 23mila uomini non atleti, il rischio di morire per una malattia neurodegenerativa era dell’1,7% per i calciatori professionisti rispetto allo 0,5% del resto della popolazione. Abbiamo approfondito la questione con l’aiuto del dottor Massimo Napolitano, dirigente medico del reparto di Neurologia presso l’A.O.R.N. Antonio Cardarelli di Napoli. «Sicuramente ci sono alcuni calciatori che sviluppano in età avanzata una forma di demenza – spiega Napolitano – ma ciò non significa automaticamente che questo sport ne sia la causa. Dobbiamo sottolineare che ci sono altri sport di contatto, tradizionalmente radicati nei Paesi anglosassoni, quali ad esempio il football americano, l’hockey, il rugby e il pugilato, estremamente traumatici a livello encefalico, che comportano per chi li pratica un rischio maggiore di andare incontro a demenza. Gli esami post mortem hanno riscontrato in effetti, in molti soggetti affetti da questo tipo di patologia la presenza di microtraumatismi».
E in Italia, dove il calcio è quasi una religione? Napolitano invita alla cautela, non c’è bisogno di demonizzare lo sport più popolare del Bel Paese, ma è bene essere prudenti. «Qualsiasi allarmismo è fuori luogo e ingiustificato – rassicura – tuttavia non è trascurabile la possibilità che il calcio possa rientrare tra gli sport “incriminati”, dal momento che è anch’esso uno sport che inevitabilmente comporta una serie di microtraumatismi a livello cerebrale dovuti soprattutto ai colpi di testa, per cui è chiaro che questo può rappresentare un fattore di rischio, sebbene non quantificabile in maniera precisa per il successivo eventuale sviluppo di una encefalopatia post traumatica che porta ad un decadimento cognitivo».
Sport di contatto non vuol dire automaticamente Alzheimer, così come non praticarli non significa necessariamente correre meno rischi di ammalarsi. «Bisogna tener presente – osserva Napolitano – che la malattia da Alzheimer proviene da diverse cause, e il microtraumatismo cerebrale può in qualche modo favorirne la comparsa, intendendolo però come fattore di rischio aggiuntivo, che va cioè a sommarsi ad altri fattori di rischio tipici. Ma non c’è solo la demenza – aggiunge il neurologo – tra le patologie per il quale il microtrauma encefalico rappresenta un rischio aggiuntivo: ad esempio, il famoso pugile Mohammed Alì aveva sviluppato un morbo di Parkinson, e si sa che il morbo di Parkinson è strettamente legato al trauma. Anche le malattie degenerative, come la Sla, da cui era affetto il calciatore Pietro Anastasi potrebbe essere legata ai traumatismi continui che hanno un effetto dannoso sul midollo. C’è un’evidenza scientifica – continua – che dimostra che soggetti anziani che hanno subìto cadute o comunque traumi cranici ripetuti hanno poi sviluppato, a parità di altre condizioni, più facilmente una demenza rispetto ad altri soggetti. Per questi pazienti c’è stato quindi un incremento del rischio, e questo dato estrapolato e trasferito a soggetti sportivi che hanno subìto dei danni cerebrali ripetuti anche di lieve entità, ha permesso di osservare un tasso maggiore di decadimento cerebrale e cognitivo».