Salute 18 Dicembre 2020 10:53

Malattie renali, colpiscono 2 milioni di italiani ma più della metà non sa di soffrirne

L’insufficienza renale può essere causata da molte patologie, fra cui il diabete e l’ipertensione arteriosa. Intervista al Dott. Luca Di Lullo, nefrologo e specialista in cardionefrologia

di Vanessa Seffler
Malattie renali, colpiscono 2 milioni di italiani ma più della metà non sa di soffrirne

Di malattie renali soffrono oltre due milioni di italiani, ma di questi il 60% non sa neppure di averla e il 40% arriva in ritardo dal nefrologo. L’insufficienza renale può essere causata da molte patologie, fra cui il diabete e l’ipertensione arteriosa. Anche il Covid-19 danneggia i reni, con meccanismi e conseguenze diverse e non è raro. Uno studio cinese ha evidenziato che metà dei pazienti ricoverati per Covid-19 presenta proteine o sangue nelle urine, un evidente segno di danno renale.

Cerchiamo di fare chiarezza con il Dott. Luca Di Lullo, nefrologo e specialista in cardionefrologia, direttore dell’Unità Operativa Complessa (UOC) di nefrologia all’ospedale di Colleferro, che ci spiega come affrontare le cure in questo momento in cui molti ospedali scoppiano di pazienti Covid, per cui gli ospedali pubblici possono cercare nel privato un’alternativa alla sala operatoria e al ricovero.

Dottore, riguardo alla dialisi, che differenze riscontra nell’offerta data sia dal pubblico che dal privato?

«È una terapia particolare che si applica a pazienti particolari. Abbiamo una serie di problemi aggiuntivi rispetto alla comune popolazione di pazienti con altre patologie. Vengono gestiti in maniera ambulatoriale, li vediamo tre volte alla settimana. Il rapporto fra medici e soprattutto infermieri di dialisi con i pazienti è molto forte rispetto ad altri contesti. La dialisi si svolge sia in centri pubblici che privati accreditati. Il paziente così non paga nulla per la prestazione dialitica. È chiaro che il connubio pubblico-privato deve funzionare bene. Se è vero che il pubblico si occupa della gestione del paziente, dalla presa in carico all’inizio del trattamento, successivamente il paziente si sposta nel privato accreditato, poiché i posti nel pubblico non sono così tanti rispetto alla loro disponibilità. Nel Lazio c’è dell’ottimo privato così come dell’ottimo pubblico, pertanto la situazione che deve svilupparsi nel futuro è far sì che queste due entità possano lavorare in sintonia, in comunione di idee, perchè il paziente debba essere gestito nello stesso modo, con la stessa qualità, in entrambi i setting. Purtroppo ci sono anche delle mancanze sia nel pubblico che nel privato, non certo dovute al paziente o alla struttura, ma anche per la situazione generale che si è venuta a creare in questo periodo Covid».

Queste mancanze sono da riferirsi solo a questo periodo di infezione da Covid oppure ci sono state anche negli anni passati?

«Assolutamente no, anzi bisogna dire che ci sono sempre state delle strutture private che sono andate incontro al pubblico, offrendo spazi che non venivano utilizzati. Da questo punto di vista è stata data una grandissima mano al pubblico».

Poichè gli ospedali si sono trasformati quasi tutti in Ospedali Covid, i pazienti hanno paura ad andarci e farsi curare. Questi, quindi, dove si recano per tre volte a settimana?

«È proprio questo il problema. Essendo diverse strutture diventate ospedali dedicati Covid è stato necessario dedicare anche i servizi di dialisi per questi pazienti. Ma avendo la disponibilità di diverse strutture private accreditate, non sfruttate al massimo, che hanno dato ospitalità a questi pazienti che pur essendo negativi al Covid sono dovuti uscire dalla struttura abituale, abbiamo risolto. In qualche modo questi pazienti andavano accolti e se questa sinergia funzionerà bene in futuro come adesso, si può prevedere un’attività integrata e collegata. È molto utile questa sinergia fra il pubblico che fa diagnosi, presa in carico e avvio delle cure e il soggetto privato che può accompagnare il paziente fino al trapianto».

Le altre malattie non vanno in vacanza e lei che si occupa anche di malattie cardiologiche sa bene che c’è un problema serio riguardo alla popolazione che non si reca in ospedale per fare screening di prevenzione perché ha paura del contagio.

«È un problema grosso. Durante la precedente ondata il lockdown di marzo-aprile scorso noi pur non avendo chiuso quasi nessun servizio abbiamo riscontrato che alcuni pazienti che non si sono recati ai controlli. in agosto-settembre non erano gestibili come in precedenza e li abbiamo dovuti avviare al trattamento dialitico. Tanti non si sono fatti controllare per paura di uscire di casa e andare in ospedale. Sta succedendo anche adesso. Per i tanti pazienti che hanno fattori di rischio cardiovascolari, che stanno in trattamento dialitico o hanno una malattia renale molto avanzata diventa un problema di primissimo piano. In questo periodo anche grazie alla nostra azienda Asl abbiamo messo su a Colleferro un ambulatorio per il controllo, la diagnosi e la prevenzione dei fattori di rischio cardiovascolari nei pazienti con malattia renale cronica. Siamo la prima nefrologia italiana che è riuscita ad accreditarsi per la prescrizione di alcuni farmaci normalmente prescrivibili in ambiente internistico o cardiologico, come i nuovi anticoagulanti diretti, piuttosto che nuove terapie per l’ipercolesterolemia, però nonostante questo non riusciamo a far sì che questi pazienti abbiano maggior controllo della loro patologia cronica, che purtroppo copre un 50/60% della popolazione rispetto per fortuna alla percentuale decisamente minore dei malati di Covid».

Bisogna andare in ospedale. Fare fronte ai problemi che si hanno in seguito può essere più oneroso.

«Posso citare un esempio banalissimo di un paziente visto in Pronto Soccorso, soggetto giovane, da 4/5 giorni lamentava un dolore precordiale, è venuto in ospedale per un altro motivo e nel controllarlo, aveva un’occlusione delle coronarie e si è salvato per il rotto della cuffia. Sarebbe potuta essere una vittima collaterale del Covid e certo non imputabile direttamente al Covid. Non bisogna perdere in questi frangenti il controllo dei pazienti che necessitano di assistenza continua mentre siamo presi da altre problematiche».

La Cisl Medici Lazio ha accolto con soddisfazione la decisione della Regione Lazio che la vaccinazione antiCovid per i medici e il personale medico sia “libera e volontaria”, quindi nessuna obbligatorietà. Lei si vaccinerà senza pensarci due volte. Qual è quindi la sua personale posizione rispetto a questo vaccino?

«Vado un po’ in controtendenza rispetto ad alcuni colleghi medici con cui ho avuto modo di confrontarmi. Credo che documentarsi sia fondamentale. Ho lavorato diversi anni negli Stati Uniti, mi sono formato lì e sempre lì ho svolto due dei quattro anni di specializzazione. Ho forse una mentalità più anglosassone rispetto ad altre persone, però esiste la cosiddetta EBM (Evidence Based Medicine). Dal momento che ci sono dati certi e inconfutabili, come quelli pubblicati sul New England Journal of Medicine, la bibbia della Medicina, in cui sono stati pubblicati i dati della Fase 3 del vaccino che verrà distribuito per primo, quello di Pfizer, che dimostra l’assoluta efficacia del vaccino stesso. Poi è chiaro che ci possono essere delle reazioni avverse, ma può succedere anche con la Tachipirina se non sappiamo di essere intolleranti a quel farmaco. Dovrebbe passare il concetto che un conto è avere un fenomeno allergico e un conto è avere uno shock anafilattico».

Ci spieghi la differenza.

«La reazione allergica può essere anche la bollicina, il prurito, il fastidio momentaneo. Lo shock anafilattico è una reazione gravissima che porta il paziente in terapia intensiva. Di shock anafilattici in questo lavoro del New England non c’è citazione. Poi può darsi che succeda, nessuno ha la sfera di cristallo. Ma a mio modesto avviso, come ricercatore sul campo, mi sembra che possa essere efficace e la famosa copertura del 94/95% chiarisce che non esiste nessun vaccino al mondo efficace al cento per cento. Forse quello della Polio. Condivido però la non obbligatorietà del vaccino, perchè ognuno deve essere libero di scegliere la strada che vuole nella vita in questo e in tutti gli altri campi. Anche perchè non vorrei che questo aprisse la strada ad altri tipi di imposizione un po’ più pericolose. Credo che noi medici dobbiamo farlo perchè siamo potenziali untori, vettori, di questa infezione. Una decisione quindi in scienza e coscienza.

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