È il risultato di 10 anni di lavoro e il concorso di diverse professioni scientifiche, anche di altri Paesi europei. Parla il Professor Rossini: «I medici non devono diventare tecnologi, ma avere le basi necessarie per interagire con gli esperti»
Una mano artificiale che percepisce la consistenza degli oggetti e che può regolare la forza. Pesante un chilo e mezzo e corredata da uno zainetto che contiene tutti i componenti necessari per il suo funzionamento, la ‘mano bionica’ ha (giustamente) occupato intere pagine di giornali, italiani ed esteri. Realizzata interamente in Italia ed impiantata in una donna italiana dal team del Policlinico Gemelli di Roma guidato dal neurologo Paolo Maria Rossini, la mano della signora Almerina è una tappa fondamentale di un percorso intrapreso circa 10 anni fa e che punta ad arrivare alla riduzione del peso e dell’ingombro della protesi. Sanità Informazione ha contattato in esclusiva il Professor Rossini per capire meglio il funzionamento della mano e come sia stato possibile tagliare questo incredibile traguardo.
Professore, può raccontarci in che modo questa mano artificiale è diversa rispetto alle protesi ‘tradizionali’?
«La mano impiantata nella signora Almerina è la quarta del suo genere, ma è diversa rispetto alle precedenti per due motivi: il primo aspetto è che la mano che la signora Almerina ha utilizzato è dotata di sensori sui polpastrelli e sul palmo grazie ai quali lei ha potuto non solo eseguire una serie di movimenti, ma anche dosare la forza della contrazione della mano e riconoscere la forma e la consistenza fisica degli oggetti, distinguendo quelli morbidi da quelli rigidi. Il secondo aspetto è che la signora ha tenuto gli elettrodi, quindi una sorta di ponte tra il suo sistema nervoso e la mano artificiale, nei nervi del proprio braccio per sei mesi; già questo è una specie di record mondiale che ci permette di pensare che la prossima volta potremo impiantarli in modo cronico, cioè per tutta la vita».
Com’è stato possibile ottenere questi risultati? Come funziona il meccanismo che è stato innestato in questa mano?
«Il principio alla base del meccanismo è molto semplice: quando una persona ha un’amputazione, nel moncherino, cioè nella parte che rimane attaccata al corpo, rimangono anche i nervi che controllano la parte che è stata perduta. In particolare, nel braccio abbiamo te grossi nervi: il nervo mediano, il nervo ulnare e il nervo radiale. Con un intervento chirurgico che si fa all’inizio della sperimentazione, si inseriscono degli elettrodi microscopici, della dimensione di un capello, all’interno di questi nervi. Ciascuno di questi elettrodi è dotato di contatti e quindi attraverso essi possiamo veicolare degli impulsi alle fibre dei nervi periferici del braccio. Questi impulsi possono poi essere fatti arrivare al cervello della persona seguendo delle vie naturali, perché una volta che il nervo viene stimolato, l’impulso risale lungo le connessioni che sono rimaste indenni dopo l’incidente. Gli elettrodi vengono poi collegati con i sensori della mano e quindi ogni volta che la mano artificiale, a seguito di un movimento, tocca un oggetto o una superficie, invia degli impulsi elettrici che raggiungono il cervello. La persona poi con un po’ di allenamento impara a riconoscere che cosa sta facendo o toccando la sua mano, qual è la quantità di forza che la sua mano sta producendo e che tipo di movimento sta effettuando».
Quanto tempo è stato necessario per arrivare fino a qui?
«La prima delle quattro mani della stessa generazione è stata usata circa dieci anni fa: pesava dieci volte quella attuale, cioè quindici chili, e quindi era una mano solo da laboratorio e non poteva essere in nessun modo collegata direttamente alla persona perché era troppo pesante. La mano che ha usato Almerina pesa circa un chilo e mezzo e tutta la parte tecnologica e di analisi dei segnali è stata sviluppata da parte del gruppo del Professor Silvestro Micera della Scuola Superiore Sant’Anna e del Politecnico di Losanna, in Svizzera. Ma poi hanno concorso anche ricercatori francesi, che hanno preparato lo stimolatore, e ricercatori tedeschi, che hanno preparato questi elettrodi microscopici che devono essere sottili ma nel contempo molto robusti per resistere ad eventuali trazioni legate ai movimenti che una persona fa nella vita di tutti i giorni; hanno concorso gruppi in Olanda e in Spagna per studiare la biocompatibilità, perché dovevamo esser certi che questi elettrodi inseriti nel corpo di una persona poi non provocassero essi stessi dei danni, degli agenti tossici che potevano ulteriormente provocare lesioni o problemi nei nervi di queste persone».
Quali sono quindi i prossimi sviluppi, ridurre ulteriormente il peso e l’ingombro della mano?
«Esattamente, i prossimi sviluppi sono sostanzialmente due: effettuare un impianto di elettrodi cronico, quindi per tutta la vita, e miniaturizzare tutte le componenti che attualmente sono ancora all’esterno della mano. La signora Almerina portava sulle spalle uno zainetto che le permetteva di muoversi nell’ambiente naturale, fuori dal laboratorio, rendendo indipendente la mano; ma tutto quello che oggi è contenuto in quello zaino sarà contenuto direttamente nella mano, quindi non saranno visibili né cavi né connessioni di alcun tipo, e tutto questo, naturalmente, si avvicina molto all’impianto definitivo».
Per concludere, anche alla luce della sua esperienza, quale sarà secondo lei il rapporto tra la tecnologia e i medici nel prossimo futuro?
«Io credo che i medici non debbano necessariamente diventare dei tecnologi, perché forse non ne sarebbero nemmeno capaci. I medici devono essere dei bravi medici, ma devono anche conoscere le basi delle tecnologie più importanti che gli permettano di interagire in modo costruttivo con coloro che sanno fare poi le cose. All’interno di questo gruppo, composto da giovani e giovanissimi, ci sono alcuni medici, ci sono molti ingegneri meccanici, molti ingegneri informatici, ci sono matematici e ci sono fisici. E questa equipe di ragazzi e di ragazze di varie estrazioni scientifiche ha imparato negli anni a dialogare e a integrarsi, in modo che alla fine le conoscenze di ciascuno concorressero all’aumento della conoscenza globale».