Negli anni ’80 era la tecnica utilizzata per curare i Testimoni di Geova, oggi è in aumento in diverse parti del mondo perché costa meno e comporta meno rischi di infezione
Per alcuni sono motivazioni religiose, per altri personali, sta di fatto che sono molti i pazienti (circa 11mila l’anno) a scegliere la medicina senza sangue. È una pratica ancora poco conosciuta, eppure ha fatto letteratura, in particolare negli Stati Uniti dove ogni anno circa 75mila persone vengono operate con la tecnica che prende il nome di bloodless surgery.
Erano i primi anni ’80 quando diversi medici in Italia si trovarono a gestire le richieste dei testimoni di Geova, che per motivi religiosi volevano essere curati senza l’impiego di trasfusioni di sangue. Una scelta radicale al punto che costituirono pure degli organismi di mediazione e informazione chiamati Comitati di assistenza sanitaria e furono i precursori del consenso informato che oggi disciplina qualsiasi trattamento sanitario.
Il primo a credere nella possibilità di praticare la medicina senza sangue fu Alessio Pace che oggi, a 83 anni, ripercorre attraverso l’agenzia Dire il suo vissuto fatto di ricordi, ma anche di paura, di emergenza da gestire e di tanti volti impressi nella memoria. «Come dimenticare il volto di Moira, una bambina di Malta di cinque anni affetta da talassemia, che arrivò in sala operatoria con 4,9 di emoglobina, o ancora una giovane, vittima di un incidente stradale che venne trasportata in ambulanza all’Aurelia Hospital di Roma con la milza distrutta e 3,2 di emoglobina? – riavvolge il nastro dei ricordi il dottor Pace mentre l’emozione prende il sopravvento -. Erano testimoni di Geova e chiedevano di essere curati senza trasfusioni. Erano circa 50 la settimana e ogni volta che entravo in sala operatoria ricordo le goccioline di sudore freddo che scivolavano giù lungo la colonna vertebrale. Allora nessuno operava sotto il valore di 7 di emoglobina, era impossibile operare senza trasfondere i pazienti in quelle condizioni», ma Pace aveva coraggio e ancora non sapeva che avrebbe scritto una pagina di storia della medicina italiana.
Pace, che nella sua carriera ha effettuato almeno 40mila interventi, la maggior parte senza l’impiego di trasfusioni, ha di fatto sdoganato una tecnologia che oggi ha una validità scientifica, tanto che l’OMS ha promosso il Patient Blood Management come approccio volto a preservare i livelli di emoglobina, favorire l’emostasi e ridurre al minimo le perdite di sangue. «Per poter operare senza sangue è importante che il chirurgo abbia una grande prontezza nell’andare a chiudere il “rubinetto” – aggiunge il chirurgo -. La diagnosi deve essere tempestiva, vedere qual è il vaso che porta sangue nella zona, studiare l’organo e chiudere quel vaso». Alessio Pace dopo una vita in prima linea, oggi a 83 anni legge, si documenta e fa un pronostico: «In futuro credo si userà il sangue al massimo nel 7-8% dei casi. Oggi ci sono farmaci come la eritropoietina che permettono di evitare le trasfusioni, ma il ruolo del medico è ancora centrale e per cambiare passo serve determinazione nel rispettare l’altrui coscienza e tanto studio».
Il testimone col tempo è passato ad altri medici illuminati come Giuseppe Vaccari, cardiochirurgo di Torino che negli anni ’90 dopo essersi specializzato nella bloodless surgery, ha aperto due ambulatori per preparare i pazienti alla medicina senza sangue, il primo a Torino e un secondo a Sesto San Giovanni, introducendo l’uso di nuove tecniche.
Oggi in Italia vengono effettuati oltre undicimila interventi senza trasfusioni all’anno, non solo a Sesto San Giovanni, ma anche presso il reparto di cardiochirurgia di Padova, presso l’unità di Urologia dell’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo in provincia di Milano e presso il reparto di Cardiochirurgia dell’Ospedale Careggi di Firenze. E anche nel mondo è una pratica in espansione a Zurigo, Londra, in Canada e negli Stati Uniti dove le ragioni di un trend in crescita sono principalmente di natura economica perché il costo complessivo delle trasfusioni si aggira intorno ai due miliardi di dollari l’anno. In Italia una sacca di sangue costa tra i 150 e i 200 euro. Esiste però anche un vantaggio sanitario che riguarda i rischi di trasmissione di infezioni per via ematica e post-operatorie da non sottovalutare.
Per evitare il sanguinamento durante un intervento si utilizzano oggi diverse tecniche, tra le più note: i clips bipolari al titanio che permettono di chiudere i vasi sanguigni una volta recisi e i gel a base di trombina e collagene che favoriscono la coagulazione. Non solo, in fase preoperatoria ci sono prodotti farmaceutici che stimolano la produzione di globuli rossi, piastrine e globuli bianchi; mentre colle e sigillanti possono bloccare perdite di sangue.
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