Di sintomatologia, incidenza, trattamenti e terapia personalizzata si è parlato in occasione di un incontro con i giornalisti organizzato da Gsk a Verona
Una patologia fortemente impattante sulla vita del paziente. Una malattia silente con una sintomatologia estremamente eterogenea e che può insorgere per cause genetiche. Una condizione definibile rara con una incidenza di 1.2, 1.4 nuovi casi ogni 100.000 abitanti all’anno, pur non essendo classificata come malattia rara. È la mielofibrosi, tumore del midollo osseo caratterizzato dalla proliferazione di globuli rossi anomali e dall’accumulo di tessuto fibroso. Di sintomatologia, incidenza, trattamenti e terapia personalizzata si è parlato in occasione di un incontro con i giornalisti organizzato da Gsk a Verona, presso la sede dell’azienda. Un momento di confronto per sensibilizzare sul tema.
La mielofibrosi può essere classificata in due categorie: primaria, quando è a insorgenza autonoma ed è dovuta ad una proliferazione clonale di cellule mieloidi anomale nel midollo osseo, o secondaria quando invece si manifesta come conseguenza di un’altra patologia, principalmente un’altra neoplasia mieloproliferativa. La maggior parte dei sintomi e delle manifestazioni cliniche della mielofibrosi sono dovuto all’infiammazione e al sovraccarico di citochine, causati da un signalling disfunzionale della pathway JAK-STAT.
“È una malattia che ha una presentazione clinica molto eterogenea per degli aspetti che chiamiamo mieloproliferativi come la leucocitosi, la splenomegalia, quindi l’aumento del volume della milza, la presenza di una sintomatologia sistemica come febbre, sudorazione e calo di peso e in molti pazienti si accompagna anche ad aspetti di citopenia cioè anemia e piastrinopenia”, ha precisato Francesco Passamonti, Ordinario di Ematologia all’Università di Milano.
“Il paziente con mielofibrosi generalmente si presenta con una serie di sintomi che sono legati soprattutto all’aumento di volume della milza che quindi, a sua volta, può causare dei disturbi dal punto di vista digestivo, una sensazione di ripienezza addominale, una difficoltà a volte a compiere anche delle attività di vita quotidiana e così via”, ha proseguito Alessandro Vannucchi, Ordinario di Ematologia all’Università di Firenze.
La ricerca ha però permesso di comprendere la patogenesi della patologia avendo identificato tre mutazioni genetiche dei geni JAK2, CALR (calreticulina) e MPL, che si verificano in circa l’85% dei pazienti con mielofibrosi. Ora il fatto che queste tre mutazioni vadano tutte ad attivare la stessa pathway ha fatto sì che si potessero identificare delle molecole “chiamate JAK inibitori, in grado di rallentare la pathway iperattivata dalla JAK2/CALR/MPL”, ha precisato Passamonti. Ciò è molto importante perché, come ricordato anche da Vannucchi, la terapia per la mielofibrosi è stata largamente palliativa proprio fino all’introduzione dei JAK inibitori. “A seguito dell’introduzione dei JAK inibitori la terapia è diventata mirata”, ha precisato Vannucchi. Ma “non mirata nel senso che questi farmaci sono specifici per la proteina JAK2 mutata, ma perché vanno a inibire questa via di segnalazione attivata (JAK-STAT ndr). Questi farmaci sono risultati efficaci soprattutto su alcuni bisogni clinici importanti del paziente quali, appunto, l’aumento di volume della milza perché causano una importante riduzione della splenomegalia, e sulla sintomatologia sistemica perché comportano una rapida regressione, e addirittura in molti pazienti la scomparsa, della sintomatologia sistemica”.
I Jak inibitori non rappresentano però l’unica opzione terapeutica a disposizione. “Il trapianto di midollo osseo allogenico è una procedura ad alto rischio vita per il paziente, ma è l’unica procedura che oggi noi abbiamo per guarire il paziente”, ha detto Passamonti. “Se noi consideriamo coorti abbastanza grandi di pazienti con mielofibrosi, circa il 10-15% è candidabile al trapianto di midollo osseo allogenico. Ovviamente vengono preferibili i pazienti definibili ‘fit’, cioè in buone condizioni generali e tendenzialmente giovani sotto 65/75 anni. Quindi oggi noi ragioniamo più con un’età fisiologica più che con un’età anagrafica nella scelta del trapianto di midollo osseo allogenico”, ha specificato l’esperto.
Alla diagnosi di mielofibrosi, “più o meno il 40 per cento dei pazienti presenta un’anemia di grado variabile e questa tende a progredire già nel corso del primo anno dalla diagnosi in oltre il 60-70 per cento dei pazienti”, ha spiegato Vannucchi. Il problema è che l’anemia è difficile da trattare. “Ci sono stati tutta una serie di tentativi nel corso degli anni con farmaci, peraltro in parte ancora in uso, come ormoni, l’eritropoietina, ormoni di tipo androgenico per stimolare il midollo, però sono terapie che hanno efficacia in una piccola percentuale di pazienti e per un tempo generalmente molto breve”. Inoltre, il quadro è complicato dal fatto che “la maggior parte dei JAK inibitori ha come effetto collaterale molto spesso, anche se non necessariamente, un peggioramento dell’anemia e quindi alcuni pazienti che già partivano anemici hanno sviluppato un peggioramento dell’anemia, oppure che partivano con l’emoglobina quasi al limite della normalità e sono diventati anemici in alcuni casi anche trasfusione dipendenti”, ha proseguito l’esperto.
“Più recentemente si è osservato che ci sono delle molecole che appartengono alla famiglia dei JAK inibitori che però hanno anche dei bersagli molecolari aggiuntivi rispetto alla sola JAK2 che, pur mantenendo un’efficacia sulla splenomegalia e suoi sintomi sistemici, hanno anche una importante efficacia sull’anemia correggendola”, rappresentando una valida alternativa per i pazienti anemici.
Nello specifico stiamo parlando del JAK inibitore momelotinib, frutto della ricerca Gsk. “Il farmaco di questa classe di JAK inibitori che abbiamo sviluppato, e che è stato recentemente approvato dall’Ema, permette a molti di questi pazienti di potersi liberare, o comunque limitare, la necessità delle trasfusioni. Noi abbiamo già sottomesso la richiesta di approvazione di questo farmaco ad Aifa, ma Gsk è pioniere in questo perché il farmaco, attraverso quello che in Italia è codificato come uso compassionevole è già a disposizione dei pazienti e dei clinici che ne fanno richiesta”, ha detto Maria Sofia Rosati, responsabile medico e direttore Oncoematologia Italia Gsk. In altre parole il farmaco è in grado di intervenire sulla trasfusione-dipendenza che spesso caratterizza la vita dei pazienti con mielofibrosi e quindi di migliorarne la qualità di vita.