La psicologa Cuzzocrea: «La maggior parte di loro è traumatizzata o ha sviluppato disturbi psichici. Necessario integrare la presa in carico all’accoglienza e prevedere follow up»
Circa la metà soffre di disturbi psichici. Otto su dieci sono traumatizzati. Fisicamente integri, sani, “idonei”, ma con l’inferno nella mente. Un inferno di cui nessuno sembra accorgersi. Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con un 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020. Mentre oggi più che mai sulle sorti dei migranti si giocano partite politiche che sfociano in bracci di ferro diplomatici, sulle coste e in mare si consuma il dramma umano.
A mancare sono anche procedure di accoglienza più adeguate, che abbiano come faro la consapevolezza dello stato di vulnerabilità che la persona migrante porta intrinsecamente con sé, la valutazione dello stato mentale della persona anche in relazione al genere, all’età, al contesto socio-culturale di partenza. Fattori che sarebbe opportuno considerare, non solo nell’ottica di un’accoglienza più umana, ma con l’obiettivo di incidere sul lungo periodo in termini di maggiore sicurezza sociale. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Vera Cuzzocrea, Consigliera dell’Ordine degli Psicologi del Lazio.
«La vulnerabilità e la possibile condizione traumatica dei migranti può derivare da tre momenti diversi relativi alla loro condizione: il momento pre-migratorio (storia personale, contesto, traumi pregressi), il percorso migratorio di per sé che è un elemento di rischio a livello psicopatologico, ed il post-emigrazione in termini di impatto e adattamento con le nuove regole, la nuova lingua e la nuova cultura, e di coerenza rispetto alle aspettative del viaggio di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Le patologie più frequentemente rilevate sul piano della salute mentale – spiega la psicologa – sono innanzitutto i disturbi post-traumatici complessi – con pensieri ricorrenti invasivi e pervasivi, disturbi del sonno, della memoria e dell’attenzione, ma soprattutto il costante ritorno di immagini intrusive relative alla memoria degli eventi traumatici vissuti prima e/o durante il percorso migratorio – insieme a depressione e disturbi da ansia».
«Alcune ricerche – prosegue Cuzzocrea – tra cui una condotta dal Ministero della Salute e da Medici Senza Frontiere, ci dicono che circa il 50% dei migranti soffre di disturbi mentali riconducibili ad eventi traumatici pregressi nel 60% dei casi e durante il percorso migratorio (89%). Un altro studio (Stell et al., 2017) ha fornito dati sui traumi pre-emigrazione e post migrazione e sugli esiti disadattivi sul piano psicopatologico facendo emergere che l’80% dei partecipanti avrebbe vissuto almeno un’esperienza traumatica prima dell’emigrazione, il 44% avrebbe mostrato di soffrire di disturbo da stress post traumatico mentre il 20% avrebbe mostrato dei sintomi depressivi. Altre ricerche – prosegue Cuzzocrea – hanno poi analizzato questo fattore sul piano dell’impatto psicologico rispetto al genere, e ci dicono che gli uomini, portando con sé una maggiore aspettativa di presa in carico del proprio nucleo familiare rischiano di produrre ulteriori vulnerabilità e delusione se falliscono, mentre le donne sono maggiormente a rischio di impattare con fenomeni di violenze sessuali, tratta e soprusi. Pensiamo poi all’aspetto dell’età e alle vulnerabilità delle persone minorenni non accompagnate, soprattutto maschi che si portano dietro un bisogno di crescita, di cambiare le proprie sorti, su cui loro e le loro famiglie hanno investito tutto. Sono aspettative di cui non possiamo non tener conto».
«Le ricerche evidenziano che laddove ci sono vissuti traumatici nel contesto pre-migratorio più facilmente si innestano i fattori di rischio specificamente ascrivibili al viaggio migratorio, che è peraltro considerato di per sé un fattore di rischio psicopatologico. Le ultime linee guida del Ministero della Salute, ci dicono, non a caso, di considerare tutti i migranti come a rischio di vulnerabilità. Tuttavia – osserva Cuzzocrea – la valutazione mentale viene ancora oggi messa in secondo piano durante le procedure di accoglienza, la linea sembrerebbe quella di dare priorità alla valutazione delle condizioni mediche di queste persone. Eppure gli studi ci dicono che la presenza di disturbi mentali in queste persone è nettamente prevalente rispetto alla presenza di disturbi somatici. La valutazione dovrebbe prevedere un primo livello integrato che inserisca nei criteri la salute mentale, e la presa in carico dovrebbe essere sin da subito improntata maggiormente ai criteri di prossimità, che tenga conto delle specifiche caratteristiche della persona, della sua provenienza geografica, culturale, sociale. Questo – spiega la psicologa – attraverso equipe integrate in cui ci siano medici, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, ma anche interpreti e mediatori culturali, per avere valutazioni e quindi capacità di accoglienza più mirate. A questa specificità di valutazione dovrebbe corrispondere sia la presa in carico di primo livello nei centri d’accoglienza sia negli step successivi».
«Pensiamo poi – prosegue – al fattore di vulnerabilità dato dal dover restare a bordo e non poter sbarcare: qui assistiamo a tentativi di suicidio, persone che si sono lanciate in mare, insomma agìti comportamentali importanti messi in atto da chi, al vaglio dello screening sanitario post sbarco, sarebbe stato magari giudicato in ottima salute fisica. Soprattutto, pensiamo agli esiti disadattivi e ai problemi di pubblica sicurezza che potrebbero derivare da una mancata intercettazione di disagio mentale in una fetta ormai così cospicua della popolazione, oltre a perderci come opportunità psicologica e sociale l’incontro con l’altro e le traiettorie possibili di integrazione e contaminazione stessa di culture e storie di vita. Ecco perché gli interventi devono rispondere maggiormente a criteri di valutazione integrata, ascolto dei bisogni e delle vulnerabilità ma anche di protezione verso nuovi scenari potenzialmente ri-traumatizzanti fornendo risorse e strategie più mirate oltre ad opportunità per una presa in carico psico-sociale e socio-lavorativa più efficace – conclude Cuzzocrea – perché il fenomeno migratorio è un fenomeno sociale, universale, che tutti condividiamo e abbiamo condiviso, ma anche complesso, anche se la politica sembra spesso dimenticarsene».
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