Alfaro (pediatra): «Ne soffrono soprattutto i minori LGBT+ esposti ad alti tassi di discriminazione e maltrattamento già in famiglia ed a scuola». Tra i giovani dai 10 ai 24 anni appartenenti alla comunità LGBT+ i tentativi di suicidio sono 4 volte maggiori
Non passano inosservati agli occhi altrui. Sono vittime di pregiudizio, ostilità, persecuzioni, bullismo, esclusione, fino ad aggressione fisica e verbale. Una discriminazione che può esplodere durante l’adolescenza, quando ci si affaccia alla vita sociale, o che può essere perpetrata fin dall’infanzia nel contesto familiare, scolastico ed anche sanitario. Si tratta delle persone appartenenti alla categoria LGBT+ (acronimo che si utilizza per indicare l’appartenenza di una persona alla vasta comunità Lesbica, Gay, Bisessuale, Transessuale/Transgender e Intersessuale), vittime di omo-transfobia, un sentimento di disgusto, avversione, odio, paura. Un’oppressione dalla quale, non di rado, origina un impatto negativo sulla stabilità psico-emotiva della persona che la subisce.
«Si chiama Minority stress. Ed il fenomeno, così definito in psicologia, è omologo al Disturbo Post-Traumatico da Stress classificato in psichiatria», spiegano Emma Acampora e Carlo Alfaro, pediatri ospedalieri presso l’Unità operativa complessa di Pediatria degli Ospedali Riuniti Stabiesi e soci Amigay aps, l’associazione nazionale delle problematiche sanitarie delle persone LGBT+.
Il Minority stress è molto diffuso nelle comunità LGBT+ italiane a causa della forte presenza di omo-transfobia: l’Organizzazione europea non governativa ILGA Europe, nella Rainbow map 2020, posiziona l’Italia al 35° posto su 49 Paesi sul rispetto dei diritti umani riconosciuti alle persone LGBT+.
A pagarne le conseguenze peggiori sono i minori: «Per la loro immaturità emotiva – continua Alfaro – sono meno dotati di sistemi di resilienza. E come se non bastasse, i minori LGBT+ sono esposti ad alti tassi di discriminazione e maltrattamento già in famiglia ed a scuola, ovvero in quei contesti fondamentali per la costruzione della loro personalità. Il comportamento ostile può essere manifestato in modo attivo e diretto (agendo intenzionalmente contro queste persone in forma di attacchi verbali o fisici come insulti, confronto, molestie, aggressioni) o indiretto (non riconoscendo o consentendo l’espressione della loro persona, come rifiutare servizi o lavoro, fino all’isolamento e all’espulsione familiare, scolastica, lavorativa)».
«L’omo-transfobia può portare a incitamento all’odio o persino a crimini d’odio violenti. Nell’ambito dell’universo LGBT+, il Minority stress colpisce particolarmente le persone transgender e soprattutto quelle Male-to-Female, dato che l’omofobia ha una forte componente di sessismo, contro tutto ciò che è femminile (femofobia). Tanto è vero che le persone effeminate sono le più discriminate, anche all’interno della stessa comunità gay», sottolinea il pediatra.
Individuare precocemente una vittima di Minority stress è possibile: «I sintomi più precoci sono sentimenti di paura, ansia, isolamento, vergogna, senso di colpa, insicurezza, scarse autostima e accettazione di sé, senso di inferiorità, autosvalutazione, difficoltà relazionali, comportamenti di evitamento. Molto allarmante è il cosiddetto “stigma percepito” – aggiunge Alfaro – ossia vivere come se si fosse meritevoli di discriminazione e bullismo in quanto “sbagliati”, colpevoli di essere “fuori posto”, di avere qualcosa che non va “da riparare” (omofobia e transfobia interiorizzata)».
La mancanza di sostegno psicologico può avere conseguenze devastanti per le vittime: «Il Minority stress – spiega Acampora – comporta l’interiorizzazione dei modelli maltrattanti: fenomeno dell’omofobia (o transfobia) interiorizzata o eterosessismo interiorizzato o internalizzato. Si tratta dell’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi che una persona prova nei confronti della propria identità/sessualità, aderendo alla ideologia omofoba, identificandosi negli stereotipi denigratori e quindi agendo contro se stesso, il proprio partner, la propria comunità sessuale».
«Le conseguenze sono malessere esistenziale, bisogno di conforto nel cibo, nelle sostanze di abuso, nel sesso promiscuo, compulsivo e non protetto, comportamenti autodistruttivi. Ciò rende conto della segnalata maggior prevalenza, nella popolazione LGBT+, di ansia, disturbi dell’umore (di tipo bipolare o depressivo), autolesionismo, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo post traumatico da stress, disregolazione emotiva, disturbi del sonno, disturbi del comportamento alimentare, malattie psico-somatiche, abuso di alcol o sostanze, malattie sessualmente trasmissibili da condotte sessuali non sicure, ADHD, demenza, suicidio».
I dati del gruppo di ricercatori del Trevor Project, che negli USA si occupa specificamente del suicidio degli adolescenti LGBT+, mostrano che il suicidio è tentato 4 volte più spesso dai giovani di 10-24 anni appartenenti alla categoria LGBT+, al punto che, dopo la depressione, l’orientamento sessuale rappresenta il predittore più forte di ideazione suicidaria, e le persone transgender sono quelle che hanno il maggior rischio nell’ambito della categoria.
«Il trattamento si fonda sulla psicoterapia. Questa deve essere allargata al sostegno di tutta la rete relazionale della persona LGBT+, in quanto la persistenza dell’ambiente omo-transfobico mantiene in atto i sintomi psichici disfunzionali contro ogni tentativo di psicoterapia. Il supporto della famiglia è fondamentale, mentre spesso la famiglia in primis rifiuta e maltratta questi minori con svalutazione, punizioni, violenza fisica e verbale, induzione di senso di colpa e vergogna, con l’obiettivo di cercare di modificarne il comportamento e costringerli ad adeguarsi».
«Anche l’accettazione a scuola è fondamentale – aggiunge la pediatra – non solo da parte dei pari ma anche dei docenti. Spesso gli studenti che non si conformano ai ruoli di genere tradizionali possono essere trattati come se si comportassero male o disobbedissero, quando in realtà stanno solo cercando di essere fedeli a se stessi. I tassi di suicidio sembrano maggiori proprio quando lo stigma viene dagli insegnanti. È fondamentale infine, a livello di prevenzione, che il contesto sociale, familiare e sanitario impari a incoraggiare e supportare il coming out dei bambini e adolescenti LGBT+. Il nascondimento della propria natura, che non è mai scelta – conclude – non fa che alimentare stress e sofferenza».
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