Malberti (nefrologo): «La carenza di personale in nefrologia non riguarda solo gli ospedali, ma anche l’assistenza territoriale. Disporre di un numero inadeguato di medici di medicina generale rende più difficile la diagnosi precoce e l’integrazione ospedale-territorio»
«La carenza di risorse umane è il problema più grosso della sanità pubblica italiana, lacuna che si riversa, inevitabilmente, anche nei reparti di Nefrologia». È così che Fabio Malberti, direttore della Struttura Complessa di Nefrologia e Dialisi ASST Cremona, membro del direttivo FIR, la Fondazione Italiana del Rene, in un’intervista a Sanità Informazione descrive la difficoltà numero uno con cui si confronta ogni giorno. Con il direttore Malberti continuiamo il nostro viaggio all’interno delle principali Nefrologie italiane, cominciato nel Lazio con il racconto di Massimo Morosetti, presidente della Fondazione Italiana del Rene (FIR) e continuato in compagnia di Carmine Zoccali, associated investigator and Board member del Renal Research Institute di New York e Francesca Mallamaci, direttore dell’Unità Operativa di Nefrologia, Dialisi e Trapianto dell’Azienda Ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria.
«La carenza di personale non riguarda solo gli ospedali, ma anche l’assistenza territoriale – spiega Fabio Malberti -. Disporre di un numero inadeguato di medici di medicina generale ha due conseguenze negative. La prima è che rende più difficile la diagnosi precoce che, per essere realmente tempestiva, dovrebbe partire proprio dagli studi del medici di famiglia. In secondo luogo, rende difficoltosa l’integrazione ospedale-territorio, fondamentale per una gestione adeguata del paziente con insufficienza renale».
A peggiorare la situazione c’è, poi, l’invecchiamento della popolazione: «È stimato che circa l’1% della popolazione over 65 soffra di insufficienza renale. Nella maggior parte dei casi – sottolinea il nefrologo – questi pazienti sono affetti anche da altre patologie, il diabete è tra le più comuni, ed hanno una scarsa motilità». Per queste persone, spesso in condizioni troppo gravi per poter essere assistiti a domicili – ma non così tanto da richiedere un ricovero in un reparto per acuti – il luogo ideale di cura è l’ospedale di comunità. «In Lombardia ne sono stati progettati diversi, ancor prima dell’esplosione della pandemia da Covid-19. Eppure, ad oggi, non possiamo ancora contare su una rete strutturata per le cure intermedie – dice Malberti -. L’unico esempio, attualmente operativo in Lombardia, è quello di Soresina, totalmente insufficiente a rispondere ai bisogni di salute di un popolazione tanto numerosa».
«La Regione dispone di 45 centri di nefrologia, sia pubblici (per la maggior parte), che privati. Il 15% dei dializzati usufruisce di dialisi a domicilio. È stimato che, ogni anno, il numero di pazienti che ha necessità di essere sottoposto a dialisi aumenta di circa il 2%, una cifra che a lungo andare, senza un adeguato arricchimento del capitale umano, potrebbe diventare difficile da gestire». È del tutto positivo, invece, il trend in aumento delle donazioni di organi in Lombardia: più trapianti si fanno e più diminuiscono i pazienti che per poter sopravvivere hanno bisogno della dialisi. «Nell’ultimo anno, in questa Regione, sono stati effettuati 320 trapianti. La Lombardia, con Piemonte e Veneto – dice Malberti – detiene il primato del numero di trapianti effettuati nell’arco di dodici mesi».
Da migliorare, invece, l’accesso alle liste trapianti: «Dall’esecuzione di tutti gli esami necessari all’inserimento in lista di un paziente il tempo di attesa medio è di circa tre anni – dice lo specialista -. Un tempo durante il quale le condizioni generali del paziente peggiorano inevitabilmente, determinando l’esclusione dalla lista di attesa dei trapianti». Eppure una soluzione ci sarebbe. «Per velocizzare i tempi di attesa, evitando che il paziente peggiori talmente tanto da non essere più in grado di “sopportare” un trapianto, sarebbe sufficiente avviare l’iter per l’inserimento in lista di attesa nello stesso momento in cui viene prescritta la dialisi, ancor prima che si comincia ad effettuarla. In altre parole, agendo preventivamente».
Prevenzione resta, dunque, la parola d’ordine, sia per i pazienti che hanno ricevuto già una diagnosi, che per tutti i soggetti a rischio. «Per lo screening sono sufficienti due semplici esami, uno del sangue e uno delle urine. Ma anche in questo caso è la carenza di personale ad ostacolare la precocità della diagnosi. Gli specialisti attualmente impiegati nelle nefrologie italiane sono troppo pochi e senza un adeguato ripopolamento dei reparti è difficile che il personale riesca ad occuparsi, oltre di chi è già stato preso in carico per il trattamento dell’insufficienza renale – conclude Malberti -, anche di tutti gli altri potenziali pazienti».
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