I successi della chirurgia endovascolare sono subordinati all’efficacia e rapidità delle reti tempo dipendenti. Il prof. Mario Muto (Ospedale Cardarelli di Napoli): «Carenza di personale specializzato, necessario rivedere la formazione dei giovani medici con percorsi ad hoc»
Tappa partenopea, quest’anno, per il Congresso della Società Mondiale di Neuroradiologia Interventistica (WFITN – World Federation Interventional Therapeutic Neuroradiology), giunto alla sua 15ma edizione. Un parterre di prestigio internazionale, presieduto dalla Prof.ssa Alessandra Biondi, direttore dell’Unità di Neuroradiologia dell’Ospedale J. Minoz di Besancon in Francia e dal Prof. Mario Muto, direttore della UOC di Neuroradiologia dell’A.O. Cardarelli di Napoli, si è riunita dal 21 al 24 Ottobre presso il polo congressuale della Mostra d’Oltremare per fare il punto sui progressi della ricerca e della chirurgia nel trattamento delle patologie ischemiche. Particolare attenzione è dedicata alle cure endovascolari precoci che negli ultimi anni hanno permesso di intervenire sullo stroke ischemico riducendo sensibilmente – e in alcuni casi azzerando – le successive disabilità per il paziente. Fondamentale diffondere presso la popolazione una corretta informazione circa i sintomi da non sottovalutare, tra cui i disturbi del linguaggio.
«Nella gestione dello stroke – spiega il prof. Muto – è fondamentale poter contare su una rete integrata di competenze: dal 118, per identificare il tipo di patologia, al coinvolgimento dei centri di primo e secondo livello (rispettivamente centri SPOKE e centri HUB)». «In Italia – osserva il dott. Salvatore Mangiafico, Direttore dell’Unità Interventistica Neurovascolare presso l’A.O. Careggi di Firenze – abbiamo 60 centri HUB, di cui l’ultimo aperto a Cagliari, e 250 centri SPOKE. Una rete integrata che funziona a dovere se funziona velocemente. Il problema è che alcuni centri SPOKE sono a corto di personale e bisogna trasferire i pazienti nei centri HUB più vicini, in una corsa costante contro il tempo».
Di cruciale importanza resta infatti, in questi casi, il fattore temporale: «Il tempo è certamente determinante, ma dipende dai singoli casi – prosegue Mangiafico – in alcuni casi parliamo di 12 ore in altri di minuti. A sua volta, il tempo di protezione dipende da molte caratteristiche: la genetica soprattutto, non sempre l’età, al contrario di quanto si creda. A volte sono proprio i pazienti più giovani ad avere tempi di protezione ridottissimi». «Individuare precocemente – spiega Muto – già in rete di emergenza urgenza, i sintomi prodromici di uno stroke ischemico consente di selezionare in modo tempestivo il paziente che può giovarsi di un trattamento endovascolare per via arteriosa di rimozione o aspirazione del trombo. Ricordiamo, il successo di questi trattamenti è tempo-dipendente: ciò significa che più tempo passa più neuroni muoiono e maggiore è il rischio di morte e di deficit neurologico».
A tal proposito, uno dei nodi principali venuti alla luce durante il summit riguarda la necessità di ripensare la formazione specifica del personale sanitario per questo tipo di trattamenti. «Ad oggi – dichiara Muto – manca un modello formativo che, in ambito neurologico, integri le competenze radiologiche con quelle interventistiche. Il nostro auspicio è che il Miur provveda a colmare questa lacuna agendo sulla formazione specialistica dei giovani medici prevedendo, nell’ambito della Radiodiagnostica, un percorso ad hoc dedicato alla Neuroradiologia interventistica. Questo consentirà di implementare il raggio di applicazione della chirurgia endovascolare, riducendo o azzerando le disabilità post-trattamento e consentendo quindi un notevole risparmio di spesa a carico delle famiglie dei pazienti e dello Stato».
«Rispetto agli Stati Uniti, dove opero, in Italia la chirurgia endovascolare non è ancora così diffusa – osserva Italo Linfante, professore in Neurologia e Neuroscienza al Florida International University e direttore di Neuroradiologia Interventistica ed Endovascolare al Miami Cardiac and Vascular Institute – È una procedura sicuramente utilizzata nei centri di eccellenza, mentre in altre strutture si predilige ancora il metodo tradizionale. Spero vivamente che queste tecniche verranno implementate anche qui in Italia. Per quanto riguarda la prevenzione, negli Stati Uniti viene data molta enfasi a questo aspetto. Ma è importante anche aver finalmente dato una risposta in termini di cura a questa patologia».
In Italia purtroppo la stagnazione del turn over e una cronica carenza di personale determinano una grande difficoltà nell’implementare le reti tempo dipendenti, e l’appello del professor Mario Muto ha il sapore di una vera e propria chiamata alle armi: «I giovani medici che sceglieranno questa strada sanno che la nostra è una branca gravosa, fatta di turni notturni e di reperibilità costante. Ma è paradossale che, almeno in Campania, siamo ben messi dal punto di vista della strumentazione tecnologica ma clamorosamente a corto di risorse umane».