Massimo Andreoni, direttore del reparto Malattie Infettive all’Università Tor Vergata di Roma, spiega a Sanità Informazione come sta evolvendo la lotta al Covid-19
Anche la lotta al Covid-19 sviluppa varianti e si evolve come un virus man mano che le conoscenze sul SARS-CoV-2 cambiano e cambiano le condizioni in cui questa guerra viene combattuta. Per questo il Green pass ha una vita più lunga (12 mesi), si è deciso di inoculare una terza dose alle persone fragili e anziane e siamo pronti ad usare i test salivari per aumentare la portata degli screening, specialmente tra i bambini che entrano a scuola. E proprio perché le cose cambiano, anche il Regno Unito ha cambiato idea (e non è la prima volta), rinunciando al Green pass come strumento di contenimento della pandemia, in quanto circa il 90% della popolazione è ormai immunizzata. Per capire meglio come sta mutando la lotta al Covid-19 abbiamo chiesto il parere del professor Massimo Andreoni, direttore del reparto Malattie Infettive all’Università Tor Vergata di Roma.
«Il Regno Unito ha sempre avuto un atteggiamento ondivago sulla pandemia. All’inizio avevano deciso di non procedere con nessuna misura restrittiva, in modo da lasciar circolare il virus e raggiungere così l’immunità di gregge attraverso l’infezione naturale, poi hanno avuto un’impennata di casi e sono stati messi in atto un paio di lockdown molto severi. Adesso hanno deciso di togliere il Green pass e addirittura molte delle misure di contenimento sin qui adottate. Il ragionamento è: “Arrivati a questo punto, abbiamo vaccinato molto, tanto vale lasciare che il virus circoli in modo da immunizzare anche il resto della popolazione”. Questa scelta è, secondo me, molto pericolosa, in quanto questa variante, che ha un alto grado di trasmissibilità, continua a causare casi gravi, soprattutto in soggetti non vaccinati. Tant’è che la comunità scientifica invita non solo a vaccinarsi ma anche a mantenere le misure di contenimento anche per i soggetti vaccinati. Quindi ci sono tutti gli elementi per dire che il Green pass, il quale viene da un lato utilizzato come sistema finalizzato a far vaccinare maggiormente le persone e, dall’altro, fa sì che nei luoghi a maggior rischio entrino solo persone vaccinate, le quali possono infettare ma hanno una minor capacità di trasmissione sia in termini di durata che di quantità di virus, sia una misura molto importante. Per questo sono totalmente in disaccordo con quanto sta facendo il governo inglese. Credo che tutto questo porterà ad un incremento del numero dei casi, con un inevitabile incremento dei morti. Questo perché neanche nel Regno Unito, purtroppo, sono riusciti a raggiungere quella immunità di massa globale che sarebbe indispensabile per contrastare questa variante».
«Diciamo entrambe le cose. Si è visto che globalmente l’immunità legata al Covid-19, sia per quanto riguarda la malattia naturale che la vaccinazione, nella popolazione sana risulta essere valida all’incirca 12 mesi. E questo è per quanto riguarda le evidenze scientifiche. D’altra parte c’è però anche una motivazione pratica: se da un lato affermiamo che il Green pass è necessario per andare a scuola, negli uffici, lavorare e così via, e dall’altro la sua durata è di 9 mesi dalla vaccinazione, un medico che si è vaccinato il 27 dicembre dello scorso anno si ritroverebbe sfornito di certificazione verde il 27 settembre prossimo. E parliamo di centinaia di migliaia di persone che hanno la necessità di vaccinarsi di nuovo. Una valanga che si affiancherebbe a coloro che ancora non si sono vaccinati e a chi dovrà farsi inoculare la terza dose. Sarebbe tecnicamente infattibile».
«È una misura assolutamente necessaria perché i dati in nostro possesso dimostrano come l’immunità fornita dai vaccini tende, dopo un certo numero di mesi, a calare. Non è un evento eccezionale: molto spesso dobbiamo ricorrere ai richiami anche con altri vaccini. Questi richiami fortificano di molto l’immunità dell’organismo. Ancora non sappiamo se poi questa terza dose riuscirà a dare un’immunità molto più duratura delle prime due. Questo potrebbe accadere. Quando diciamo che probabilmente ogni anno dovremo fare il richiamo, senza dubbio è vero, ma dobbiamo ancora vedere cosa succederà per esserne sicuri».
«Sia in termini di accuratezza che di sensibilità, il livello è assolutamente accettabile. Certo, i test salivari sono un gradino sotto al test nasofaringeo, che rimane ovviamente quello di riferimento. Ciò detto, i test salivari hanno un grande vantaggio: la raccolta del campione è molto meno invasiva, motivo per cui si adattano molto bene a campagne di screening anche su larga scala. Siccome le faremo anche nelle scuole per poterle riaprire in sicurezza, il test salivare è una soluzione ottimale perché se da un lato la perdita di sensibilità è minima, e dunque non corriamo grandi rischi di falsi negativi, ci permetterà di cercare il virus su grandi numeri, di gran lunga maggiori rispetto agli screening effettuati con tampone nasofaringeo. Questo, poi, non può essere ripetuto costantemente sullo stesso soggetto, e soprattutto per i bambini più piccoli, proprio perché molto invasivo e fastidioso».
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