Il Presidente dell’Istituto Mario Negri: «Farmaci e vaccini ci faranno tornare alla normalità solo se saranno disponibili in tutto il mondo. Occuparci dei Paesi in via di sviluppo non è una forma di beneficenza, ma è soprattutto nel nostro interesse»
In questo momento, oltre alla strategia vaccinale potrebbe essere necessario comprendere se sia possibile pianificare una strategia mirata con farmaci antivirali, in compresse, a casa. Allo stato attuale sono quattro i farmaci più interessanti in dirittura d’arrivo, tra giugno e ottobre.
Il primo è il Molnupiravir (noto anche come EIDD-2801/MK-4482), in Fase 3 avanzata: si assume per via orale ma è esclusivamente per pazienti non ospedalizzati.
Il secondo farmaco è AT-527 (Roche): in questo momento lo studio clinico è in Fase 2, ma sta per passare in Fase 3. Si tratta di un farmaco antivirale ad azione diretta somministrato per via orale progettato per inibire la replicazione virale interferendo con l’RNA polimerasi virale.
Poi, c’è lo studio di Fase 1 randomizzato, in doppio cieco, della Pfizer. Il PF-07321332 è progettato specificamente per inibire la replicazione del virus SARS-CoV-2.
E infine è partito da pochi giorni a Padova il trial clinico – approvato dall’ISS – con il nafamostat mesilato.
Per capire meglio se queste potranno essere soluzioni concrete all’emergenza e quando potranno contribuire alle terapie anti-Covid, Sanita Informazione ha intervistato Silvio Garattini, Presidente dell’Istituto Mario Negri.
«Sono molti i farmaci antivirali in corso di studio. In particolare avremo a disposizione parecchi anticorpi monoclonali che tuttavia almeno per il momento non agiscono sulla malattia Covid-19 ma hanno un’azione nel ridurre la carica virale solo nei primi giorni dopo un tampone positivo. Questi prodotti almeno per ora non hanno indicazione per quanto riguarda il trattamento ospedaliero. Sono in corso di studio anche altri farmaci che hanno un’azione diretta antivirale ma non sappiamo per il momento quale sia l’impatto sui casi gravi. Altri farmaci riguardano il blocco di una proteasi che è importante per permettere al virus di entrare nelle cellule umane. Infine esistono anche altri prodotti in corso di studio che avrebbero una funzione locale nell’impedire al virus di penetrare attraverso la barriera nasale».
«È difficile rispondere finché non sapremo come e quanto agiscano questi farmaci. Per ora sono molto più indicati in una fase iniziale e quindi potranno solo indirettamente ridurre la presenza della malattia».
«Dipende molto dal tipo di farmaco. Quanto più è specifico per un determinato sito del virus, tanto più potrà perdere la sua efficacia verso varianti virali che ovviamente si moltiplicano nel tempo».
«Sono due strategie di tipo diverso. La strategia vaccinale tende a prevenire la circolazione del virus, riducendo il numero di persone in cui il virus può crescere. L’obiettivo è la cosiddetta “immunità di gregge” che tuttavia non sappiamo a che livello si raggiunga. Oggi si pensa al 70-80% ma per alcuni vaccini come quello contro il morbillo è necessario raggiungere il 95%. La strategia terapeutica attraverso farmaci che per ora sono ancora in sperimentazione è invece quella di diminuire la gravità della malattia e la mortalità nei pazienti che non sono protetti dalla vaccinazione. L’insieme delle due strategie, qualora siano possibili, comporterà un ritorno alla normalità ma solo se avverrà in tutto il mondo. Infatti se nei Paesi a basso reddito non saranno disponibili vaccini e farmaci, il virus continuerà a circolare e si realizzeranno mutazioni che produrranno varianti virali che potrebbero essere insensibili ai vaccini disponibili nei nostri Paesi. Per questa ragione è fondamentale disporre dei vaccini anche attraverso licenze obbligatorie che temporaneamente aboliscano i brevetti. Occuparci dei Paesi in via di sviluppo non è una forma di beneficenza ma è soprattutto nel nostro interesse».
«La ricerca scientifica in Italia è sempre stata considerata una spesa anziché un investimento capace di generare innovazione e prodotti ad alto valore aggiunto. Siamo in grave difficoltà perché abbiamo solo la metà della media dei ricercatori europei, fatte le opportune correzioni per l’entità della popolazione. Siamo fra i Paesi che dedicano meno risorse alla ricerca, sia a livello pubblico che a livello delle attività industriali. Perdiamo ogni anno molti giovani che non trovano la possibilità di realizzare ricerca nel nostro Paese. Oltretutto, la possibilità di svolgere ricerca è penalizzata da una pesante burocrazia riguardante sia la sperimentazione animale, sia quella clinica. Per dare un’idea delle differenze con gli altri Paesi europei, basterà ricordare che anche solo per cercare di avvicinarci alla spesa della Francia, dovremmo spendere almeno 20 miliardi di euro all’anno in più. Il supporto alla ricerca permetterebbe di aumentare l’occupazione. Per quanto riguarda ad esempio le scienze della vita, 1 miliardo può generare circa 9mila posti di lavoro. È ora che il Governo passi dalle parole ai fatti, altrimenti l’Italia pur avendo eccellenti ricercatori non potrà contribuire in modo significativo ai progressi della scienza ed in particolare a quelli che riguardano il mondo della medicina».
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