La discussione sulla Legge Zan si fa sempre più accesa: la discriminazione di persone Lgbt è un fenomeno vasto e reale. Con la dottoressa Biondi, psicologa, esaminiamo le conseguenze delle violenze e la mente di chi le perpetra
Dopo oltre un mese di richiami all’attenzione, partecipazione di celebrità e tanti articoli divulgativi, la Commissione Giustizia del Senato ha calendarizzato la discussione del disegno di legge Zan contro discriminazioni e violenza motivata da orientamento sessuale, identità di genere, genere e abilismo. Il Ddl, che ha ottenuto 13 voti favorevoli e 11 contrari, si propone di estendere la legge Mancino a nuovi campi fino ad allora non considerati.
Il dibattito sulla tematica è stato estremamente acceso e lo è ancora, fuori e dentro il Parlamento. Sanità Informazione ha pensato di porre l’accento sull’aspetto psicologico che circonda le aggressioni e gli atteggiamenti discriminatori verso le persone Lgbt, per vittime e persecutori. Per farlo abbiamo interpellato Paola Biondi, psicologa e psicoterapeuta, responsabile dell’area Pari Opportunità per l’Ordine degli psicologi del Lazio.
Durante il corso della sua vita una persona Lgbt subisce almeno un episodio di discriminazione o violenza. Secondo il Report 2019 dell’Agenzia Ue dei Diritti Fondamentali, stilato su 140mila partecipanti, 6 persone su 10 evitano di tenere per mano il partner se dello stesso sesso. Due su cinque hanno ammesso di aver subito molestie a causa della propria identità di genere o orientamento sessuale nell’anno precedente al report. Una su cinque si dichiara discriminata sul lavoro, una su tre nei bar o nei ristoranti. Uno studente Lgbt su due dichiara di non sentirsi supportato da compagni e insegnanti.
Tutto questo ha delle conseguenze importanti sulla psiche delle vittime, su cui la letteratura scientifica si concentra da anni. Primo tra tutti è il “Minority Stress”, un fenomeno individuato dal dottor Ilan Meyer, che si esplicita in discriminazioni e atti di violenza subiti, stigma percepito e omobilesbotransfobia interiorizzata. «Lo stigma percepito – ci spiega meglio la dottoressa Biondi -, cioè vivere come se ci fosse una reale discriminazione, come se ci fosse un reale atto di violenza anche in assenza di questo. Le persone che appartengono a una minoranza, in questo caso a una minoranza sessuale, vivono in continua allerta come se potessero essere vittime di un’aggressione da un momento all’altro».
Si vive quindi con la consapevolezza di “meritare” di stare nascosti perché “sbagliati”. «Vivono – prosegue Biondi – avendo la percezione fortissima di avere qualcosa che non va, di essere “da riparare”, con sensi di colpa e vergogna per quello che sono. Hanno il terrore di fare coming out, temendo di ferire le persone vicine».
E dove porta questo dolore che non passa mai? «Disturbi d’ansia, depressione, disturbi del sonno e alimentari, disturbi della condotta con abuso di sostanze o autolesionismo – elenca l’esperta -. Tutta la letteratura ha rilevato un aumento di comportamenti a rischio nelle persone Lgbt rispetto al mainstream dei coetanei eterosessuali, un aumento dell’ideazione suicidaria. Si arriva a pensare “se io mi uccido nessuno sta male, né io né gli altri”».
L’aspetto più terribile è che «questo è determinato non sempre dall’aver esperito su di sé atti di violenza veri e propri ma da una generale sensazione di illegalità. Forte in tutte le persone che seguo, ancor di più in persone che appartengono a una religione monoteista, che percepiscono la propria sessualità come una punizione».
Tra i punti della legge Zan si evidenzia con chiarezza l’omotransfobia come movente punibile per aggressioni e discriminazioni. Una indicazione definita “superflua” da alcuni, ma di immenso aiuto alla psiche delle persone Lgbt secondo la dottoressa Biondi.
«La discriminazione e aggressione delle minoranze è di per sé unica – è il commento dell’esperta -. Chiunque può essere aggredito per una rapina, ma nessuno viene aggredito perché è eterosessuale. Mentre venire aggrediti perché si è gay, lesbiche o trans è una realtà. Ad oggi non si può picchiare una persona per la sua religione grazie alla Legge Mancino, mentre si può farlo verso una persona Lgbt senza incorrere in un’aggravante. Manca la specificità e questo aumenta indirettamente il Minority Stress».
Alla dottoressa Biondi abbiamo chiesto allora di guidarci nella mente di chi aggredisce e disprezza per omotransfobia. «Già dal ’77 – ci spiega – si è iniziato a ragionare su questo fenomeno, molti studi parlano di omosessualità latente e repressa. In una sperimentazione furono messi a confronto uomini eterosessuali rispetto a stimoli sessuali di persone gay, che provocarono eccitazione sessuale in alcuni dei soggetti. Le persone che avevano questo tipo di reazione fisiologica erano quelle che mostravano un alto tasso di omofobia, come dire: più sei omofobo più tendi ad avere emozioni molto forti di fronte a stimoli omosessuali».
«Uno studio di qualche anno fa su dei tratti di personalità comuni in queste persone, li ha riscontrati legati alla presenza di meccanismi di difesa arcaici, non maturi. Come dire che i soggetti non sono in grado di elaborarli, con successivi sintomi depressivi e un attaccamento insicuro. Caratteristiche trovate in misura maggiore in persone con un alto tasso di omofobia».
Biondi analizza, infine, una matrice che si trova alla base dell’atteggiamento omotransfobico: il sessismo. «Fondamentalmente – conclude – la cosa che dà più noia è che si ha paura di qualcosa che si femminilizza. Le persone omosessuali più sono effeminate più sono discriminate, anche all’interno della stessa comunità Lgbt. Più passano inosservate, meno sarà l’omofobia con cui dovranno confrontarsi. Così le persone trans: le MtoF (male to female) sono più discriminate rispetto ai FtoM (female to male), con una misoginia di fondo, neppure troppo latente».
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