Fabio Vescini (endocrinolgo): «Non tutte le persone con una bassa massa ossea devono essere trattate con i farmaci. Terapie solo per i pazienti con un elevato rischio di frattura»
Ogni 3 secondi, nel mondo, un uomo o una donna si fratturano il femore, il polso o una vertebra a causa di un’unica patologia: l’osteoporosi. È una malattia metabolica dello scheletro che colpisce un’ampia fetta della popolazione italiana: «Si calcola – spiega Fabio Vescini, endocrinologo dell’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine – che in Italia ci siano circa 4,5 milioni persone malate di osteoporosi». In percentuale sono le donne ad essere più colpite degli uomini: 3,5 milioni contro un milione.
«La patologia – continua l’endocrinologo – è riconoscibile attraverso analisi strumentali come la densitometria ossea, che permette di valutare la densità minerale ossea ed esprimerla con un numero». Questo tipo di esame diagnostico utilizza una piccolissima dose di raggi X per stabilire quanti grammi di calcio e altri minerali sono presenti nel segmento osseo esaminato.
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«Avere una bassa massa ossea non rappresenta un immediato fattore di rischio per la frattura perché – specifica Vescini – la malattia si conclama quando avvengono le fratture per un trauma minimo. Proprio per questo motivo, è di fondamentale importanza capire che non tutte le persone con una bassa massa ossea devono tassativamente essere trattate con i farmaci per l’osteoporosi. Le terapie farmacologiche devono essere prescritte solo a quei pazienti che presentano un elevato rischio di frattura». Rischio che oggi può essere stimato incrociando una serie di specifici dati.
«Esistono degli algoritmi creati proprio a questo scopo – commenta lo specialista -. Un calcolo che associa la densità minerale ossea alla valutazione dei fattori di rischio di frattura individuali, come la genetica, il fumo, l’alcol. Dal risultato si otterrà una percentuale di rischio di frattura a 10 anni, che permetterà di classificare i pazienti in tre diverse categorie: coloro che necessitano di un trattamento immediato, quelli che possono procrastinare l’inizio di una terapia limitandosi solo a misure igienico-sanitarie e di alimentazione, e i pazienti che dovranno sottoporsi ad un controllo negli anni futuri».
Diagnosticare precocemente un elevato rischio di frattura significa poter evitare la frattura stessa: «Esistono terapie con un’elevatissima efficacia antifratturativa. La parte del leone, tra i farmaci – prosegue Vescini – la fanno ancora i cosiddetti bifosfonati, da somministrare per via orale o iniettiva. Negli ultimi 5-6 anni è stato commercializzato un anticorpo monoclonale molto valido. Da oltre 15 anni, invece, esiste anche un anabolizzante osseo, un farmaco particolare indicato per le fasce di popolazione ad elevato rischio di frattura. Ma il futuro – conclude l’endocrinologo – ci riserverà sicuramente nuovi farmaci che permetteranno di ampliare ulteriormente i trattamenti e migliorare i risultati».