Nel nostro paese solo 16507 professioniste contro le 31mila della Gb. La presidente dell’Ordine della Professione Ostetrica interprovinciale di Bergamo, Cremona, Lodi, Milano, Monza Brianza sottolinea: «Oggi l’accordo Stato-Regioni prevede che ci sia una correlazione tra ostetriche e numero di parti, ma l’interpretazione della legge è lasciata alla discrezionalità delle varie aziende»
Mancano le ostetriche in Italia. Dopo il grido d’allarme lanciato dai medici, anche la professione che accompagna le donne nel percorso nascita lamenta carenze di organico. Una carenza che si sente ancora di più in Lombardia dopo l’approvazione della nuova progettazione dei servizi alla maternità definiti con la Delibera XII/268 dello scorso 28 giugno 2018 in Regione Lombardia, che stabilisce la necessità di attivare modelli organizzativi che, nelle situazioni a basso rischio ostetrico e rispondendo a criteri di appropriatezza e sicurezza, garantiscano la continuità dell’assistenza in gravidanza, parto e puerperio con presa in carico della donna dall’ostetrica.
Una carenza che appare anche più evidente se si raffrontano i numeri italiani con le stime internazionali, come è stato fatto di recente da Eurostat che ha messo in luce la situazione della professione in Europa. Il gap dell’Italia è netto: a fronte di 260 mila ostetriche nell’Unione Europea distribuite uniformemente in paesi come Regno Unito dove sono 31 mila, Germania e Francia che contano 23mila unità, l’Italia si ferma a 16507 con una proporzione di 27 ostetriche ogni 100 mila abitanti. Un dato che evidentemente fa riflettere e che impone un cambiamento per altro già in atto come spiega Nadia Rovelli, presidente dell’Ordine della Professione Ostetrica interprovinciale di Bergamo, Cremona, Lodi, Milano, Monza Brianza e referente degli Ordini della Professione Ostetrica di Regione Lombardia. «L’Ostetrica oggi è una professione sanitaria intellettuale, che fa un percorso accademico e che si laurea nelle scienze ostetriche, ginecologiche e neonatali. Per cui l’utenza di riferimento è la donna nella sua fascia riproduttiva, quindi dall’adolescenza alla menopausa, attivando interventi assistenziali, di educazione e di screening».
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Oggi riuscite a ricoprire questo ruolo?
«L’ostetrica, che per competenza dovrebbe occuparsi dell’unità madre-neonato, in molte realtà lavora solo in sala parto e non in ostetricia e nido».
Rispetto a questo gap, quali sono le criticità più evidenti?
«Regione Lombardia ha sanato con atto normativo nel giugno 2018 la più evidente. Benché ci sia il Pomi, modello infantile ministeriale, che risale al 2000 e che prevede sul territorio la presenza di consultori famigliari con la figura dell’ostetrica, il progetto non è mai stato attuato, se non in qualche caso isolato. Da qualche anno alcune regioni, su tutte Trentino-Alto Adige, Piemonte ed Emilia Romagna, hanno colmato il gap con progetti e modelli organizzativi avanzati di presa in carico della donna da parte dell’ostetrica per tutta la gravidanza sia a livello consultoriale che nelle aziende ospedaliere. Regione Lombardia il 28 giugno 2018 ha deliberato in questa direzione per cui la donna accede al consultorio, fa un colloquio preventivo in cui le vengono indicati tutti gli esami da fare, quali regimi di vita modificare, ad esempio evitare totalmente assunzione di alcol in gravidanza e durante l’allattamento per non incorrere in disturbi feto alcol-correlati che generano problemi comportamentali emotivi fino a difetti funzionali organici gravi, e poi seguono la donna durante la gravidanza, l’accompagnano in ospedale al momento del parto e rappresentano il suo punto di riferimento nelle due ore successive che sono le più critiche. Non solo, dopo la dimissione si relazioneranno con la donna per ancora due mesi durante i quali avranno modo di monitorare sul suo stato psicofisico, l’emotività ed eventualmente segnalare a specialisti possibili anomalie».
A livello europeo questa direttiva è consolidata da anni, in Italia siamo all’anno zero. In funzione di queste nuove direttive cosa cambia nella formazione?
«Di fatto nulla, perché già nella professione delle ostetriche si intende che prenda in carico la donna durante la gravidanza, che vigili su sintomi che determino uno spostamento dal percorso fisiologico, e in quel caso, allerti chi di competenza in modo da entrare in rete con il medico e altri specialisti se necessario. Ci vorranno almeno due anni perché Regione Lombardia e più in generale l’Italia sia a regime, nel frattempo l’Ordine delle Ostetriche sta progettando ed attivando degli aggiornamenti professionali focalizzati su queste competenze».
Come agite in quella direzione?
«Le istituzioni se da un lato hanno la legge da applicare, si trovano a fare i conti con una finanziaria che ha ridotto i fondi, quindi devono trovare il giusto equilibrio. Il primo passo sarà quello di convertire il personale sanitario non ostetrico, presente in tutte le unità materne, con professioniste ostetriche ed attivare gli ambulatori del percorso nascita nelle aziende e nei consultori. Il passo successivo sarà di attivare negli ospedali le cosiddette unità funzionali BRO (basso rischio ostetrico) dove operano le ostetriche che ne diventano figura di riferimento e dove viene offerto un percorso assistenziale ostetrico appropriato per le donne con profilo a basso rischio. In Trentino- Alto Adige il percorso è iniziato da un anno e mezzo ed oggi, che è a regime, ha evidenziato un abbattimento di parti cesarei e di analgesia farmacologica durante il travaglio. Non solo, questo genera maggiori livelli di soddisfazione materna e dei tassi di allattamento».
I nuovi master che valore aggiunto danno a questo percorso?
«Secondo il contratto nazionale sono stati individuati tre ambiti: riabilitazione del pavimento pelvico, procreazione medicalmente assistita e ostetrica di comunità. Un valore aggiunto a quello che è già un percorso universitario triennale completo con numerosi crediti formativi anche sull’emergenza».
Per essere a regime quante ostetriche mancano in Italia?
«Nel 2015 Nice, istituto di eccellenza inglese che emana delle linee guida e raccomandazioni seguite e recepite da tutta la categoria, ha stabilito che il rapporto tra donna in travaglio ed ostetrica deve essere one to one, infatti se una donna viene lasciata sola durante il travaglio o il parto per più di 20 minuti, deve essere considerato un evento sentinella che mette a rischio la salute materna e fetale. Allo stesso modo l’ostetrica deve essere a disposizione della mamma e del nascituro fino alle due ore successive al parto, periodo più a rischio per emorragie o complicanze per il bambino. Questo serve ad osservare con continuità tutta l’evoluzione emotiva, fisica e psicologica che sta avendo la donna durante il processo dal travaglio al parto e se evidenzia sintomi preoccupanti di discostamento dalla normalità fisiologica, l’ostetrica deve allertare i medici. Oggi l’accordo Stato-Regioni prevede che ci sia una correlazione tra ostetriche e numero di parti, ma l’interpretazione della legge è lasciata alla discrezionalità delle varie aziende per cui oggi ci sono tre ostetriche in strutture con almeno 3mila parti, e reparti di ostetricia dove non è prevista la figura dell’ostetrica, il che significa che le donne in puerperio non hanno assistenza ostetrica appropriata e qualificata».
Carenza di ostetriche ed accorpamento dei punti nascita, due facce della stessa medaglia, mentre la sanità subisce continui tagli…come se ne esce?
«In Regione Lombardia stanno nascendo delle realtà dove l’ostetrica prende in carico la donna in gravidanza e l’accompagna anche in ospedale al momento del parto. Ad esempio, Piario, dove il punto nascita è stato chiuso, ma al suo posto è stato organizzato un servizio ostetrico attivo in ambulatorio e a domicilio con visite gratuite fino a otto settimane dopo il parto. La visita domiciliare dell’ostetrica permette di effettuare un bilancio di salute, che va a contestualizzare nell’abitazione come la mamma si approccia al piccolo, come agisce nella gestione quotidiana e suggerisce modelli assistenziali che possono determinare anche maggiore riuscita dell’allattamento al seno. L’altro grande ambito di competenza riguarda lo stato emotivo della mamma in funzione del piccolo in tal caso si valutano le risorse della rete familiare e sociale attive o da attivare».