Intervista al Brig. Gen. Vincenzo Barretta (ex Policlinico Militare Celio Roma): «Gestire una pandemia durante una guerra? Si smette di pensare alla prima». Un altro scenario, dai contorni ben diversi, si delinea invece quando un agente virale o batterico viene usato come arma vera e propria allo scopo di determinare le sorti del conflitto
Combattere una guerra tradizionalmente intesa con armi da fuoco e, contemporaneamente, gestire una pandemia. Mentre i due schieramenti contrapposti si affrontano con armi visibili e tangibili e con il corollario di reciproche alleanze c’è un altro nemico invisibile, che non conosce le fazioni in conflitto e non distingue fra gli eserciti contendenti ma continua ad agire in silenzio. Come del resto fa, a sorti alterne, da due anni a questa parte, il virus Sars-CoV-2. Ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altro virus, o batterio.
Non è la prima volta che un evento pandemico si sovrappone ad un conflitto. È già successo cento anni fa, quando l’influenza spagnola contribuì a rendere ancora più funesta la Prima Guerra Mondiale. Ma come si combatte un nemico invisibile come un virus nel vivo di un conflitto? Come si mantengono, se si mantengono, in vigore le misure di precauzione e prevenzione (distanziamento sociale, igiene più accurata, vaccinazioni) che in questi due anni abbiamo imparato a adottare?
Di questo, ma anche di altri scenari paralleli, abbiamo parlato con il Brig. Generale Vincenzo Barretta, già direttore della Farmacia del Policlinico Militare di Roma. Una carriera, quella del Generale Barretta, costellata di esperienze alla direzione diretta delle farmacie degli ospedali militari di campo italiani in alcuni dei teatri di guerra degli ultimi 40 anni, dal Libano alla Somalia e in supporto logistico farmaceutico a Kosovo, Sarajevo, Iraq, Afghanistan.
«La verità è che in un contesto di conflitto moderno, come quello che attualmente interessa l’Ucraina e tutte le altre aree di crisi belliche mondiali, le misure di prevenzione contro un virus come Sars-CoV-2, semplicemente smettono di essere una priorità – osserva il Generale -. La priorità diventa la sopravvivenza nell’immediato. Chi ha una minimale dimestichezza con i teatri di guerra sa bene che le esigenze primarie essenziali delle popolazioni esacerbate dal conflitto sono: trovare infrastrutture idonee per porsi al riparo sia dalle intemperie che dal conflitto, vestirsi e cambiarsi opportunamente, riuscire a trovare acqua potabile, cibo sufficiente, lavarsi, disporre di servizi igienici. Tutte cose che nell’ordinario diamo per scontate ma che in un periodo di crisi, anche bellica, non lo sono affatto. È chiaro che in una situazione del genere – sottolinea – completamente avulsa dai contesti di normalità in cui siamo stati chiamati a vaccinarci e ad osservare una serie di norme di prevenzione, queste stesse attività non possono essere correttamente praticate (catena del freddo, ambulatori, anagrafica dei vaccinati…) ed avere la stessa importanza, la stessa priorità, la stessa cogenza come nel tempo ordinario».
Il preoccuparsi di reperire una mascherina quando è necessario reperire viveri e coperte per superare la notte, attuare il distanziamento nei rifugi sotterranei, evitare una potenziale polmonite quando il vero rischio è finire dilaniati da un colpo di mortaio, insomma, è assolutamente impensabile, oltre che impraticabile.
Un altro scenario, dai contorni ben diversi, si delinea invece quando un agente virale o batterico viene usato come arma vera e propria allo scopo di determinare le sorti del conflitto, quando cioè uno degli schieramenti decide di dare inizio ad una guerra batteriologica.
«Quando si parla di un’epidemia o pandemia generatasi naturalmente, tutti giocano ad armi pari. Nel caso in cui invece una Nazione decida di dare inizio a una epidemia – spiega il Generale – ricorrendo a un agente batteriologico/virale in suo possesso, è chiaro che quello schieramento sarà già vaccinato o, almeno, immune e quindi in possesso di una difesa anticorpale tale essere inattaccabile da quello stesso agente che si è diffuso fra i nemici».
Le armi batteriologiche, ricordiamo, sono vietate come armi di distruzione di massa. Lo stoccaggio e l’uso di armi biologiche è stato vietato dal 1972 dalla Convenzione per le armi biologiche. L’uso clandestino di armi da parte di uno Stato o l’uso da parte di gruppi non nazionali può essere considerato bioterrorismo. Esse però sono studiate in laboratori biologici che si caratterizzano per classi e livelli. «Il laboratorio di livello 4 – spiega il Generale – custodisce agenti virali/batterici in grado di provocare patologie gravi per le quali non si conoscono cura né vaccino. Il laboratorio di livello 3 custodisce agenti virali/batterici in grado di provocare patologie gravi ma per le quali si conoscono cure e vaccini».
«Un attacco batteriologico si attua in maniera decisamente banale. Ad esempio, liberando l’agente letale – spiega Barretta – conservato in un contenitore adatto, nell’aria, nell’acqua o a contatto con le polveri, a seconda del tipo di agente. Gliela faccio ancora più semplice: un solo soggetto libera l’agente letale durante una qualsiasi manifestazione affollata, e l’irreparabile accade. L’arma è invisibile, e possono trascorrere anche diversi giorni prima di vederne gli effetti, quando ormai non ci si può più difendere. Lo scenario è distopico – osserva il Generale – e non credo si realizzerà nel breve periodo, ma qualora dovesse accadere, l’unica misura possibile per limitare i danni è cinturare la zona interessata, se circoscritta, per evitare un ulteriore allargamento dell’epidemia. Chi è dentro la zona potrebbe non avere scampo».
«A parte la disponibilità o meno dell’agente patogeno adatto nessuna delle due Nazioni si vorrebbe manifestare al mondo come Nazione bioterrorista, usare armi vietate classificate come arma di distruzione di massa, a meno di non far ricadere la colpa sull’altro. Inoltre, non credo sia ipotizzabile una degenerazione in questo senso – sostiene il Generale Barretta – anche a causa delle connessioni che, nonostante tutto, esistono tra le due nazioni in guerra, che si distinguono per profondi legami anche parentali».
Due scenari spaventosi, con una differenza sostanziale che rende il secondo anche più pericoloso del primo. «Un attacco batteriologico consente alla parte attaccante di conservare un enorme vantaggio – spiega ancora Barretta – cioè sterminare l’avversario senza proprie perdite, mantenendo perfettamente intatte tutte le infrastrutture nemiche, a differenza di una guerra combattuta con armi convenzionali. E soprattutto a differenza di un’eventuale guerra nucleare – conclude – a seguito della quale, se anche ci fosse un vincitore (ma non ci sarà), questi non dominerebbe su altro che non sia uno sconfinato deserto radioattivo».
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