Al Gemelli di Roma, per la prima volta in Italia, è stato effettuato un intervento di Stimolazione Cerebrale Profonda per il Parkinson utilizzando tutte le tecnologie più avanzate attualmente a disposizione. Tufo (neurochirurgo): «Questa tecnica è utile, laddove la terapia medica non abbia dato risultati ottimali o abbia prodotto importanti effetti collaterali»
Neuronavigatore, stimolatore innovativo, elettrocateteri direzionali, software per la verifica del posizionamento degli elettrodi: ecco le strumentazioni hi-tech di ultima generazione al servizio della terapia chirurgica del Parkinson, la Deep Brain Stimulation (DBS). Apparecchiature precisissime e all’avanguardia che, al Policlinico Gemelli di Roma, sono state utilizzate tutte insieme su un paziente di 52 anni. «Non è l’intervento di stimolazione cerebrale profonda ad essere innovativo – sottolinea Tommaso Tufo, il neurochirurgo che ha eseguito la procedura -. La novità è aver riunito l’utilizzo di tutte le tecnologie più avanzate attualmente a nostra disposizione».
La prima stimolazione cerebrale profonda è stata effettuata al policlinico Gemelli già nel 1996 ed anche in quel caso si è trattato di uno dei primi interventi eseguiti in tutta la Penisola. «Questa tecnica è utile per il trattamento dei disturbi del movimento come la malattia di Parkinson, il tremore essenziale e la distonia», aggiunge Tufo. Tuttavia, questa tipologia di intervento non rappresenta una soluzione definitiva. «La stimolazione cerebrale profonda agisce sui sintomi del Parkinson, ma non cura la malattia. Consente di ottenere una sorta di “ringiovanimento”: è come se il paziente avesse la possibilità di tornare indietro alle prime fasi della patologia – aggiunge il neurochirurgo -. Questo trattamento è riservato a pazienti giovani, di età inferiore a 65 anni, che rispondono poco alla terapia medica o che hanno effetti collaterali disabilitanti, come fluttuazioni motorie o blocchi».
La DBS consiste nell’impianto di un neurostimolatore, (una sorta di pacemaker del cervello), costituito da un generatore che, come quello del pacemaker cardiaco, viene alloggiato in una tasca cutanea sotto la clavicola, e di un microelettrodo che viene posizionato a livello dei nuclei della base, strutture nervose che si trovano nelle profondità del cervello. Per realizzare questo delicato impianto nel cervello si ricorre a una tecnica neurochirurgica (stereotassica) molto precisa. «Questa tecnica, negli ultimi anni, si è evoluta grazie all’impiego di tecnologie e strumentazioni di sala operatoria che consentono di essere mininvasivi e ultra-precisi – spiega Tufo -. Per “centrare” la zona dell’impianto si utilizza un “neuronavigatore” (uno speciale computer di sala operatoria), che guida la mano del neurochirurgo sulle “strade” cerebrali, fino ai nuclei della base, seguendo una sorta di Google map tridimensionale, ricostruita a partire dalle immagini della risonanza magnetica cerebrale del paziente».
Ma le innovazioni non finiscono qui. Una volta finito l’intervento, fino a poco tempo fa, era necessario spostare il paziente in radiologia per effettuare una TAC di controllo post-operatoria. «Ora – aggiunge lo specialista – è possibile collegare i neuro-navigatori computerizzati direttamente ad una specie di TAC intraoperatoria (O-arm) che permette di controllare la posizione degli elettrodi in tempo reale, direttamente in sala operatoria. Successivamente, dopo aver impiantato gli elettrodi nelle appropriate zone del cervello, si fanno passare sottocute i cateteri che li collegano al generatore di impulsi (una batteria di pochi centimetri), alloggiato in una tasca sottocutanea, sotto la clavicola. Alcuni di questi generatori sono oggi ricaricabili dall’esterno, possono durare fino a 25 anni e non devono essere sostituiti, come accadeva un tempo», dice Tufo.
Dagli anni ’90, periodo in cui sono stati effettuati i primi interventi di DBS, la tecnologia si è evoluta in maniera rapidissima, fino agli attuali sofisticati sistemi. «Gli elettrodi utilizzati oggi – prosegue Tufo – sono direzionali, hanno cioè varie faccette di stimolazione, che consentono di indirizzare la stimolazione in maniera molto precisa. Anche i generatori consentono di effettuare stimolazioni personalizzate a seconda del paziente e i più evoluti sono in grado di leggere l’attività cerebrale (sensing), permettendo di modulare la stimolazione (cosiddetto closed loop), grazie ad un software dedicato, che è stato appena rilasciato. Tutto questo riduce molto anche il rischio di effetti indesiderati che si osservano con la stimolazione classica, come l’abbassamento del timbro della voce e gli effetti sulla produzione del linguaggio». Oggi, a distanza di tre decenni, è possibile anche raccogliere i primi risultati a lungo termine: «Abbiamo osservato un buon controllo dei sintomi della malattia – spiega il neurochirurgo – anche nei soggetti sottoposti a questi impianti vent’anni fa, con neurostimolatori di certo molto meno performanti di quelli che utilizziamo oggi. Per questo, le prospettive offerte da queste tecnologie di ultima generazione – conclude – non possono che essere ulteriormente incoraggianti».
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