Il Direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità invita alla cautela sui test sierologici per scoprire l’immunità da Covid-19: «Sono ancora in via di validazione, quindi bisogna avere un po’ di cautela di fronte ai risultati». Poi aggiunge: «Stiamo valutando l’uso obbligatorio delle mascherine»
In questi giorni l’attenzione di governo, regioni e autorità sanitarie è sulla cosiddetta ‘fase 2’, quella della ripartenza dopo il lockdown di queste settimane. Un passaggio delicato che, se fatto nei tempi e nei modi sbagliati, rischia di far ripartire l’epidemia. Per questo si parla ovunque dei cosiddetti “test sierologici” e della “patente di immunità”: in sostanza attraverso un test del sangue si cercano gli anticorpi che dovrebbero indicare il superamento (o meno) della malattia da parte di soggetti che, di conseguenza, sarebbero in grado di riprendere l’attività lavorativa.
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Ne abbiamo parlato con Giovanni Rezza, Direttore del Dipartimento Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, che però invita alla cautela: «Si assume che una persona che abbia superato l’infezione in maniera sintomatica o asintomatica abbia degli anticorpi che lo proteggono – spiega Rezza -. Allora, se risultasse positivo a un test sierologico che rilevi la presenza di questi anticorpi contro il virus, si potrebbe dire che questa persona è immune. Però questi test sono ancora in via di validazione perché sono arrivati adesso sul mercato. Una valutazione accurata ancora non è stata fatta, quindi bisogna avere sempre un po’ di cautela di fronte ai risultati ».
Ma aver avuto la malattia significa esserne immune? Anche su questo, ancora non ci sono evidenze scientifiche. «In linea di massima – spiega Rezza – con le malattie infettive c’è una immunità che resta a vita. In questo caso il follow up dei pazienti non c’è, è un virus nuovo, però si pensa che una persona che abbia superato la malattia e abbia gli anticorpi, possa essere considerata immune. Ma servono studi a lungo termine».
Test sierologici sono allo studio in diverse regioni italiane: apripista il Veneto, ma poi anche Lazio, Emilia Romagna, Campania e ora anche la Lombardia. Una corsa, però, che necessita di una cabina di regia nazionale, o si rischia di avere test diversi da regione a regione. «Questo rischio c’è – continua Rezza -. Questo è uno dei motivi per cui è stato proposto uno studio nazionale che si sta definendo».
C’è poi un’altra incognita che pesa sull’utilità dei test sierologici: dove il virus ha circolato poco, non servirebbero a ripartire. «Le strategie per ripartire possono essere tante. Anche perché al nord chiaramente il numero di persone che possono essere considerate immuni potrebbe essere discreto. Diverso al centrosud, dove il virus ha circolato poco».
«Al centrosud – conclude il Direttore delle Malattie Infettive dell’ISS – la cosa più importante è l’identificazione tempestiva dei casi, l’isolamento delle persone infette, il contact tracing cioè il rintraccio dei contatti, l’isolamento dei contatti che abbiano avuto un contatto stretto con i malati. Si sta anche valutando l’uso di app che potrebbero in qualche modo aiutare. Ci sono diverse strategie che possono essere messe in atto ancora in via di valutazione, tra cui anche l’uso obbligatorio delle mascherine. Ne stiamo parlando».
Intanto, l’ultima circolare del Ministero della Salute ha fatto chiarezza sull’utilizzo dei test: questi sono molto importanti nella ricerca e nella valutazione epidemiologica della circolazione virale ma molto meno «nell’attività diagnostica d’infezione in atto da SARS-CoV-2, dove necessitano di ulteriori evidenze sulle loro performance e utilità operativa». Secondo il Comitato Tecnico scientifico «i test rapidi basati sull’identificazione di anticorpi IgM e IgG specifici per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 non possono, allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica, sostituire il test molecolare basato sull’identificazione di RNA virale dai tamponi nasofaringei secondo i protocolli indicati dall’OMS».