Dai parametri EMA sui rischi-benefici dei vaccini all’analisi della situazione epidemiologica italiana, il professor Guido Rasi, già direttore esecutivo dell’Ema e consulente del commissario Figliuolo, spiega i motivi alla base del cambiamento della strategia vaccinale
Il rapporto beneficio-rischio non è un numero assoluto. Il rapporto beneficio-rischio è in realtà un indice complesso e fortemente dipendente da situazioni che mutano costantemente nel tempo. L’utilizzo di un farmaco può essere particolarmente vantaggioso in una fase di una malattia o solo per una parte di una popolazione esposta per esempio a fattori tossici, genetici o appunto infettivi. La situazione attuale ci offre un ottimo esempio.
Per quanto riguarda i vaccini tre sono i parametri principali che l’EMA ha indicato di considerare e che possono far cambiare significativamente ed in tempi rapidi il rapporto beneficio-rischio. Questi sono: l’intensità di circolazione del virus/indice di trasmissione, la disponibilità di vaccini in termini di quantità e di differenti caratteristiche, il numero e le caratteristiche delle persone già vaccinate.
Questo significa che ogni paese dovrà seguire l’evoluzione dei suddetti parametri nel proprio territorio e ci si aspettano quindi decisioni differenti coerenti con le diverse situazioni. Nel pieno della pandemia, quando l’indice di trasmissione era molto alto (oltre 1.000 persone ogni 100.000 abitanti) il rischio di morte per la popolazione vulnerabile era massimo ed il rischio di ospedalizzazione era incomparabilmente più alto del rischio di trombosi per qualsiasi fascia d’età, anche nella popolazione generale. Contemporaneamente sia il numero di vaccinati sia la disponibilità dei vaccini era limitata.
Uno dei compiti fondamentali dell’agenzia regolatoria centrale, l’EMA, consiste nel raccogliere continuamente i dati di sicurezza ed efficacia (farmacovigilanza), nel ridefinire costantemente il rapporto beneficio-rischio e nel cambiare le indicazioni di uso a fronte di nuove evidenze. I primi casi di trombosi atipiche, ora definite VITT dall’acronimo inglese per “trombocitopenia trombotica immune indotta da vaccino”, sono state osservate per la prima volta con l’uso del vaccino di AstraZeneca, Vaxzevria, verso la fine di marzo, dopo la somministrazione di diversi milioni di dosi.
Come abbiamo imparato, in questa pandemia dobbiamo umilmente continuare ad osservare, raccogliere dati ed adattare di conseguenza le nostre strategie. Attualmente la frequenza totale di VITT è di circa 1 caso ogni 100.000 somministrazioni con una frequenza maggiore nelle donne giovani. Il fenomeno come ormai sappiamo è attribuito ad una anomala reazione immunitaria indotta dal vettore virale per cui è ipotizzabile che questo possa verificarsi con tutti i vaccini a vettore virale, Johnson and Johnson (J&J) e Sputnik.
Su J&J sembra prematuro trarre conclusioni dato il limitato utilizzo, anche se i casi sembrano in numero inferiore ed utilizza sia un diverso vettore che una diversa frazione della proteina Spike, mentre il vaccino Sputnik è stato utilizzato solo in Paesi dove non c’è farmacovigilanza.
Oggi la situazione epidemiologica in Italia è completamente diversa: il virus circola a bassa intensità (meno di 50 casi per 100.000 abitanti, secondo la definizione dell’EMA); il rischio di ospedalizzazione rimane superiore al rischio di trombosi (VITT) solo per le fasce d’età superiore ai 60 anni e non ancora immunizzate; in questa fascia di età inoltre il rischio di VITT è pressoché zero. Riguardo agli altri due parametri, sono ora ampiamente disponibili altri vaccini ad mRNA (Pfizer e Moderna) e si è raggiunta una ampia copertura vaccinale, quasi 45 milioni di dosi somministrate. Questo impone una revisione della strategia poiché sono mutati tutti e tre i parametri e quindi il rapporto beneficio-rischio.
Oggi siamo in grado di evitare anche un rischio di VITT infinitesimale, somministrando vaccini ad mRNA alla popolazione inferiore ai 60 anni. La macchina di distribuzione vaccinale regionale è ora ampiamente collaudata, in grado di rimodulare le somministrazioni in pochi giorni e la struttura commissariale ha già confermato che gli aspetti logistici non costituiranno un problema.
La decisione dell’EMA di non cambiare le indicazioni generali per l’Europa basata sul beneficio-rischio complessivo non è in contraddizione con la decisione del governo di non somministrare i vaccini a vettore virale sotto i 60 anni. In Italia questo cambiamento, anche se tardivo, è coerente con il nuovo scenario.
Assolutamente inadeguata appare invece la decisione di alcune autorità locali di lanciare “open days” organizzati come happening, con tanto di assembramenti e dimenticando che la vaccinazione è un atto medico e l’anamnesi non è facoltativa.
La campagna vaccinale si deve ora rivolgere alla popolazione dai 18 ai 40 anni completando il secondo obiettivo strategico, ridurre drasticamente la circolazione virale che risulta massima in questa fascia d’età poiché socialmente più attiva.
Anche la decisione presa delle autorità italiane di utilizzare un vaccino diverso per la seconda dose va in questa direzione, avendo la possibilità di ridurre i rischi tendenzialmente a zero. Dal punto di vista immunologico sappiamo quanto stimoli differenti siano favorevoli per il sistema immunitario, dal quale ci si aspetta una risposta ancora più efficiente. I primi studi sembrano confermarlo e vale la pena notare che nessuno aveva obiettato circa la possibilità di fare una terza dose con un vaccino differente.
Intanto la raccolta dei dati continua. La farmacovigilanza prosegue la sua attività ed i nuovi dati generati potranno far modificare nuovamente i tre parametri e di conseguenza bisognerà adattare la strategia vaccinale in tempi rapidi, per garantire che si persegua sempre l’obiettivo di realizzare il miglior rapporto beneficio-rischio. Se la comunicazione anticipasse le decisioni anziché seguirle, potremmo finalmente dire che abbiamo imparato, a pandemia auspicabilmente in declino.
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