Il direttore del “Pottergate Centre for Dissociation and Trauma”, Remy Aquarone, spiega a Sanità Informazione uno dei disturbi mentali meno conosciuti ma più intriganti: il disturbo dissociativo dell’identità. «Quando un bambino subisce un grave trauma, per sopravvivere crea una barriera di amnesia tra la personalità che affronta il problema e quella che cerca di andare avanti come se nulla fosse accaduto. Da adulto, basterà un rumore per far riemergere la personalità del bambino»
Il cervello si scinde come una cellula in due, poi in tre, poi in quattro, e così via. A volte si ferma presto. A volte continua a dividersi fino a creare un centinaio di identità diverse racchiuse in un solo organismo. Il corpo umano diventa una sorta di condominio in cui vivono tante persone che non si conoscono (e a volte litigano) e che hanno storie, abitudini e ricordi diversi. Il corpo resta quello, magari cresce e si evolve con l’età. Ma laddove era mosso da una sola volontà, una sola coscienza, presto ne subentra un’altra, poi un’altra e un’altra ancora, e tutte vivono insieme. Il corpo si trasforma insomma in “una stanza piena di gente”, come il titolo del libro di Daniel Keyes che racconta la storia vera di Billy Milligan, criminale statunitense con 24 personalità diverse.
Il disturbo dissociativo dell’identità è un meccanismo di difesa sviluppato dal cervello per proteggere la persona che ha subito gravi traumi e che lo fa entrare in una specie di coma psicologico. Ne deriva lo sviluppo di tanti “altri” che prendono ciclicamente il controllo del comportamento dell’individuo, dando vita a vuoti di tempo e a cambiamenti repentini di linguaggio se non di lingua, di atteggiamento e di abilità: adulti che si comportano e si esprimono come bambini, persone che iniziano a parlare una lingua che non sapevano di conoscere, due parti di sé che litigano a voce alta parlando con toni e linguaggi diversi.
Basta fare una rapida ricerca su Internet per rendersi conto di quanti scrittori, registi e musicisti si siano ispirati al disturbo dissociativo dell’identità (o disturbo di personalità multipla) per le proprie opere. Da Hitchcock ai Genesis, da David Lynch e Martin Scorsese a Stephen King e Robert Louis Stevenson, è comprensibile il motivo di tanta curiosità e interesse nei confronti di un tema così affascinante, che sembra prestato alla realtà dalla fantasia degli autori più che il contrario. Eppure questa patologia esiste ed è tanto frequente quanto la schizofrenia: si calcola che tra l’1% ed il 3% della popolazione ad un certo punto della vita sperimenti serie reazioni dissociative.
Per approfondire l’argomento e andare oltre alla cultura di massa che film e libri hanno contribuito a creare, abbiamo intervistato il professore inglese Remy Aquarone, direttore del “Pottergate Centre for Dissociation and Trauma” ed ex presidente della Società europea e della Società internazionale di trauma e dissociazione.
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Professore, possiamo iniziare dalla definizione di disturbo dissociativo dell’identità?
«Il DSM-5 [il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association, ndr] lo definisce come “la presenza di due o più stati di personalità separati”. Com’è ovvio si tratta di una definizione molto generale. Entrando nello specifico, si tratta di un disturbo che in genere sorge in presenza di due elementi: problemi di attaccamento del neonato ad una figura adulta che se ne deve prendere cura e un grave trauma, insopportabile per un bambino perché ancora non pronto per affrontarlo. Inconsciamente, quindi, il cervello del bambino si separa in due parti, in modo che il bambino che sta affrontando il trauma sia diviso dal bambino che sta cercando di andare avanti come se non ci fossero problemi. In altre parole, c’è una barriera di amnesia, un muro tra ciò che sta accadendo al bambino e la sua consapevolezza, per permettergli di sopravvivere».
Quindi si sviluppa solo nei bambini?
«In casi estremi accade anche negli adulti. Se, ad esempio, pensiamo alle terribili esperienze vissute nei campi di concentramento, sappiamo che gli adulti che sono riusciti a superarle meglio sono coloro che non avevano alcun ricordo di quanto accaduto. È una specie di coma psicologico: l’unico modo che ha il cervello per superare tali traumi è non ricordarli. C’è anche chi ricorda i fatti ma non ha alcuna emozione correlata ad essi, come se ascoltassero la storia di qualcun altro. Poi magari dopo 20, 30 o 40 anni c’è una sorta di recupero della memoria: improvvisamente l’individuo ricorda tutto, e allora nascono i veri problemi».
Qual è il numero maggiore di personalità che sono state riscontrate in un singolo soggetto?
«Molti dicono di avere 5, 8 o 10 personalità, altri dicono di averne centinaia. Io non credo che in questi casi siano parti nettamente separate, però se le situazioni pericolose ed i traumi si susseguono più volte nel tempo, le parti continuano a dividersi. Il cervello diventa come una cellula che si divide in più parti, che a loro volta si separano, e così via. Quindi non so se siano diverse parti nettamente divise, ma può darsi che ci siano delle caratteristiche leggermente diverse che le contraddistinguano».
Può spiegarci com’è possibile che il linguaggio o il comportamento cambino con il passaggio da un’identità all’altra?
«Immaginiamo che un bambino subisca un trauma all’età di quattro anni. Una volta diventato adulto, un semplice rumore o un racconto in qualche modo legato a quell’esperienza può far riemergere il bambino di quattro anni, e quella persona si comporterà o parlerà proprio come un bambino piccolo. Possono anche ricordare cose che avevano imparato da piccoli ma che, dopo l’esperienza del trauma, avevano rimosso: molte persone cresciute in Rhodesia scoprirono solo da adulti di conoscere la lingua Afrikaans e, emersa la loro personalità di bambini, di essere in grado di parlarla. In Olanda è in corso uno studio proprio su questo, misurando il cervello di un adulto affetto da disturbo di personalità multipla: quando è l’identità del bambino a prendere il sopravvento, il volume del suo cervello, che a tutti gli effetti dovrebbe essere di un adulto, è pari a quello di un bambino».
Come nasce la consapevolezza del problema?
«Può avvenire in due modi diversi: alcune volte si iniziano a sentire delle voci nella propria testa oppure a dar vita a delle conversazioni, molto spesso litigi, a voce alta tra due parti di sé; altre volte sono gli amici che si rendono conto di comportamenti strani di cui l’individuo non ha memoria. Ci si rende conto di avere vuoti di tempo, perché magari l’ultima cosa che si ricorda è la colazione ma è sera, e non si sa che cosa sia successo nel mezzo, perché è stata la personalità dell’epoca in cui è avvenuto il trauma a prendere il controllo del corpo. Ci si accorge quindi che c’è qualcosa che non va e quando si capisce che cos’è non lo si accetta».
In questi casi cosa può fare la terapia?
«L’obiettivo è aiutare i pazienti a connettersi a tutte le parti che li compongono, scoprendo e accettando ciò che è accaduto loro e capendo che un tale sistema di sopravvivenza, fondamentale per proteggerli da bambini, non è più necessario. Lo stesso capita a chi ha subito traumi da adulti, come gli americani che hanno combattuto in Vietnam, formati per sparare subito in una situazione di pericolo e far domande solo successivamente. Una volta tornati, è capitato che bastasse il rumore fatto da una macchina a riportarli indietro e a tirare fuori la pistola per sparare. Allo stesso modo, i soggetti affetti da disturbo dissociativo dell’identità devono capire che la minaccia non c’è più e imparare ad integrare tutte le loro personalità in una sola».