All’Asst di Monza in corso il monitoraggio del danno polmonare da Sars-CoV-2 nei pazienti ricoverati per Covid-19 durante l’emergenza epidemiologica. In un’intervista a Fabrizio Luppi, direttore della Clinica Pneumologica, i risultati preliminari
Anche i pazienti che non hanno sviluppato una polmonite bilaterale da Covid-19 in forma grave, rischiano una successiva fibrosi polmonare. È questo il dato più rilevante emerso dai risultati preliminari del monitoraggio del danno polmonare da Sars-CoV-2 rivolto ai pazienti che sono stati ricoverati per Covid-19 durante l’emergenza epidemiologica nell’Asst di Monza.
Tra tutti i pazienti sottoposti a follow up, nell’1% dei casi è stata riscontrata l’insorgenza di fibrosi polmonare. «La percentuale potrebbe sembrare minima, ma se rapportata all’enorme numero di persone che in questi due anni di pandemia, nel mondo, si sono ammalati di polmonite bilaterale da Covid-19, allora ci si renderà conto che siamo di fronte ad un problema che riguarda milioni di persone – spiega Fabrizio Luppi, direttore della Clinica Pneumologica dell’ASST Monza, Ospedale San Gerardo -. La patologia potrebbe trasformarsi, nei prossimi anni, in un nuovo problema di sanità pubblica da monitorare ed affrontare per molte nazioni, Italia compresa».
La fibrosi polmonare post Covid, osservata durante questo anno di monitoraggio, sembra avere le stesse caratteristiche della fibrosi polmonare idiopatica. «La fibrosi polmonare idiopatica è “per definizione” una malattia progressiva – dice il professor Luppi -. Negli ultimi 7-8 anni sono stati commercializzati dei farmaci in grado di rallentare tale progressione. La fibrosi post-Covid pare si presenti con caratteristiche analoghe a quelle delle fibrosi già note (i dati di questo anno di monitoraggio sembrano dimostrarne la progressività), ma solo il tempo potrà offrire un’effettiva conferma. In questo caso, è probabile che tali pazienti potranno essere trattati con i farmaci attualmente utilizzati per la fibrosi polmonare idiopatica».
La dispnea, ovvero la fatica a respirare, pur essendo uno dei principali sintomi riferiti dai pazienti nel post-Covid, non è sufficiente ad orientare la diagnosi di fibrosi polmonare. «Trattandosi di un sintomo descritto direttamente dal paziente la sua reale gravità non sarà necessariamente pari a quella percepita – sottolinea lo pneumologo -. Inoltre, la dispnea si manifesta anche nei pazienti che non hanno sviluppato polmonite bilaterale da Sars CoV 2. Per questo, i monitoraggi radiologico e ventilatorio sono gli unici strumenti più precisi ed adeguati di cui disponiamo al momento per identificare quella percentuale di pazienti a rischio fibrosi».
Il monitoraggio, cominciato da circa un anno, proseguirà su due diversi fronti: «Da un lato – sottolinea lo specialista – per studiare più a fondo l’evoluzione del post-Covid, dall’altro per monitorare la progressione della patologia in questo un per cento di popolazione che ha sviluppato fibrosi polmonare». I pazienti che hanno preso parte a questo monitoraggio sono stati sottoposti a controlli ed indagini funzionali respiratorie, come la visita pneumologica, spirometria globale, diffusione del CO e test del cammino dei 6 minuti. «Quest’ultimo rappresenta un test standardizzato per la diagnosi di uno specifico tipo di insufficienza respiratoria, che non si evidenzia quando il paziente è fermo. Per alcuni dei pazienti sottoposti a questo test del cammino, infatti – conclude Luppi – è stata rilevata la necessità di ossigenoterapia solo durante lo sforzo e non a riposo».
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