«La figura si assume la responsabilità del percorso del paziente per tutto il tempo della degenza e poi gli organizza la dimissione», spiega la dirigente Antonella Croso. Al nosocomio piemontese il terzo posto del Premio Alesini per le buone pratiche in sanità
Un infermiere che si prende cura di te dall’inizio alla fine della degenza e anche oltre. Questo è il primary nursing, fedele al principio ‘assisti come vuoi essere assistito’. Una teoria che l’Ospedale di Biella ha spostato ormai da diversi anni e che è valso al nosocomio piemontese il terzo posto al Premio Alesini per l’umanizzazione delle cure conferito da Cittadinanzattiva (il vincitore è stato l’Ospedale Guglielmo di Saliceto di Piacenza con “l’oncologia territoriale”). Un premio guadagnato anche grazie agli interventi apportati alla struttura, ora un vero e proprio polo di promozione culturale, con aree verdi, una struttura fissa per mostre ed esposizioni, postazioni di book crossing e un allestimento di opere d’arte permanenti in alcuni reparti. «La persona non è una malattia, non è un numero di un letto ma una persona che ha dei pensieri, che ha delle esigenze, dei dubbi, delle ansie e che devono essere presi in carico nel loro complesso quando entra in Ospedale», spiega a Sanità Informazione la dottoressa Antonella Croso, Direttore della struttura complessa Direzione delle Professioni Sanitarie dell’Ospedale di Biella.
Dottoressa Croso, com’è nata l’idea del Primary Nursing?
«Noi abbiamo avuto la fortuna a Biella di avere un ospedale nuovo nel 2014. Nel momento di lavorazione progettuale riguardo a come si sarebbe svolta l’attività nella nuova struttura, abbiamo pensato a come si sarebbe svolta l’attività dell’infermiere nel nuovo ospedale. Negli anni precedenti ci eravamo chiesti se era utile andare a lavorare nel nuovo ospedale con le stesse modalità adottate nel vecchio ospedale o se cercare qualcosa di meglio in due filoni importanti: miglioramento dell’assistenza ai pazienti e miglioramento della professionalizzazione degli infermieri. Negli anni precedenti al 2014 abbiamo cercato ispirazione dai modelli teorici che c’erano in giro. La dottoressa Claudia Gatta, responsabile del dipartimento di medicina, aveva anche la responsabilità di cercare modelli assistenziali innovativi e così ha cominciato ad esplorare l’area del primary nursing. Quindi abbiamo cominciato a lavorarci già nel 2012, poi abbiamo avuto la fortuna di avere qua da noi la teorica americana del Primary Nursing che ci ha incoraggiati a proseguire in questa strada, siamo andati avanti e siamo arrivati fino a oggi».
Tutti i pazienti del nosocomio hanno un infermiere di riferimento?
«Tutti i pazienti hanno un infermiere di riferimento che si presenta con nome e cognome e che segue il paziente. Si assume la responsabilità del percorso del paziente per tutto il tempo della degenza e poi gli organizza la dimissione».
Lo seguono anche dopo il ricovero?
«Non lo stesso infermiere, ma lo affida ad altri colleghi che possono essere infermieri delle case di riposo o i colleghi dell’assistenza domiciliare».
Quanto è importante per il paziente avere un infermiere di riferimento?
«Dato che il primary nursing si basa sul principio di assistere come vorresti essere assistito, il paziente ha dei benefici dell’avere un infermiere di riferimento perché ha una persona a cui rivolgersi che conosce approfonditamente la sua cartella clinica ma anche tutti quelli che sono i suoi bisogni di assistenza in maniera continuativa e ha un percorso di pianificazione delle sue necessità assistenziali. I pazienti hanno quindi un interlocutore privilegiato, una persona che dà indicazioni agli altri colleghi infermieri su quelle che sono le cure da fare, su quelle che sono le informazioni importanti da sapere e su quelle che sono le criticità a cui può andare incontro il decorso in ospedale. Inoltre ha la responsabilità ad aiutare il paziente a rientrare nel proprio domicilio qualunque esso sia interfacciandosi con gli assistenti sociali del territorio. Poi abbiamo un’altra figura nell’azienda che si fa carico delle dimissioni particolarmente difficili. L’infermiere di riferimento, quando ha una dimissione che prevede essere piuttosto complessa, si fa aiutare e ha come consulente l’infermiere di ‘care manager’ che è quello addestrato per la risoluzione di questi problemi».
I pazienti sono contenti di questa figura?
«Questo progetto non è un progetto autoreferenziale ma ha avuto un importante finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella che ha sostenuto il progetto di implementazione dell’infermiere di riferimento finanziando in maniera sostanziosa tutto il percorso di formazione ma anche un progetto di ricerca per rilevare tra i pazienti quale fosse il gradimento, la diminuzione delle lesioni da decubito, il miglioramento delle infezioni vescicali, ecc. Per questo motivo noi possiamo dire che i pazienti gradiscono avere una persona a cui riferirsi soprattutto quando sono pazienti anziani che hanno delle degenze prolungate nel tempo. È chiaro che l’importanza dell’infermiere primary è meno significativa dove ci sono degenze brevi, di pochi giorni, con pazienti autosufficienti e magari anche giovani. Pur essendo disponibile, ha un valore diverso. Ma noi, nel biellese, abbiamo la popolazione più anziana del Piemonte. Siamo una zona dove la popolazione anziana ha un’incidenza molto alta. Quindi la nostra popolazione tipo è il paziente anziano pluripatologico con patologie croniche».
Il vostro modello è difficile da esportare?
«No, non è difficile da esportare. Noi abbiamo avuto un finanziamento perché abbiamo fatto un lavoro complesso e documentato. Ma in realtà, nell’arco degli anni, dal 2012 al 2018, il progetto è andato avanti e il finanziamento è finito nel 2014. Il finanziamento è servito ad iniziare in maniera massiva. Poi è finito e oggi il progetto sta andando avanti e più di 180 persone sono venute a Biella dalla Romagna, dalla Toscana, dalla Liguria a vedere come stiamo implementando il modello del primary nursing per esportarlo nelle loro realtà. Sono venute ad imparare le buone pratiche e trovare le modalità per implementare il progetto nelle loro realtà».
Quanto è importante l’umanizzazione delle cure nella guarigione del paziente?
«Il paziente è soprattutto una persona. La persona non è una malattia, non è un numero di un letto ma una persona che ha dei pensieri, che ha delle esigenze, dei dubbi, delle ansie e che devono essere presi in carico nel loro complesso quando entra in Ospedale. Quindi dev’essere aiutato a ritornare nelle migliori condizioni possibili in relazione alla sua patologia. Trovarsi in un bell’ambiente, trovare momenti di relazione con l’esterno, opere d’arte, aree verdi che accompagnano l’ingresso dell’ospedale, ecc. sicuramente migliora quello che è il rapporto con la struttura sanitaria anche in condizioni che possono essere difficili da un punto di vista psicologico. Essere accolto, trovare delle persone gentili, trovare delle persone che si assumono la responsabilità e lo dichiarano, perché l’infermiere primary non è un infermiere qualunque, è un infermiere che ha nome e cognome. Ad oggi i questionari di gradimento che l’azienda ha distribuito danno proprio un riscontro notevole in questo senso. Ci sono sempre persone che si comportano in maniera anomala, però la percentuale di gradimento da parte dell’utenza è oltre il 97%. Sono percentuali altissime di gradimento, riconoscimento dell’attenzione delle cure. Abbiamo lavorato per andare incontro alle esigenze del paziente in tutti i modi possibili».