A 43 anni dalla legge Basaglia, che ha sancito la chiusura dei manicomi, l’assistenza psichiatrica non è a pieno regime. Il presidente della SIP: «Serve una regia centrale che coordini ambulatori, strutture residenziali e semi-residenziali e reparti ospedalieri»
“We two are one”: è il titolo di una canzone degli Eurythmics, uno dei gruppi preferiti di Andrea Soldi, il 45enne torinese che, nel 2015, ha perso la vita durante un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). “Noi due siamo uno” è anche la frase che Andrea ha scritto e riscritto nelle pagine del suo diario e che, ora, ha dato il titolo al libro pubblicato sulla sua storia. Un racconto che ha acceso nuovamente i riflettori sulla condizione dell’assistenza psichiatrica in Italia.
Sono trascorsi 43 anni dalla legge Basaglia (la legge n. 18 associata comunemente al nome di Franco Basaglia, psichiatra e promotore della riforma), approvata il 13 maggio del 1978, eppure ci sono ancora molti tasselli mancanti affinché il sistema possa operare a pieno regime in tutte le regioni d’Italia.
«Siamo l’unico Paese al mondo che ha chiuso sia gli ospedali psichiatrici che gli ospedali psichiatrici giudiziari – spiega Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di Psichiatria -, a favore di un modello di psichiatria di comunità. Gli obiettivi di questo cambiamento epocale sono stati descritti per la prima volta nel 1994, lasciando un vuoto normativo di ben 16 anni, per poi essere rivisitati nel 2000. La successiva riforma dell’articolo V, che ha sancito la regionalizzazione della sanità, poi, ha provocato, ulteriori rallentamenti nell’organizzazione di questo modello di psichiatria di comunità».
Ad oggi, la mancanza di risorse economiche è il principale ostacolo da superare: «Era stato concordato che ogni regione destinasse il 5% della spesa sanitaria regionale alle cure psichiatriche, ma questa percentuale – sottolinea il presidente della Sip – viene rispettata solo nella provincia di Bolzano e in Emilia Romagna».
Le discrepanze regionali si rispecchiano anche nella struttura organizzativa: «Sono ancora troppo poche le regioni che offrono un’assistenza integrata con i servizi per le dipendenze e la neuropsichiatria infantile. Così come, nella maggior parte delle strutture, sarebbe necessaria una maggiore presenza di professionisti che collaborino in team con gli psichiatri, dagli psicologi ai tecnici della riabilitazione psichiatrica, fino agli assistenti sociali», aggiunge Zanalda.
Di queste carenze pagherebbero le conseguenze, stando alle ultime stime del Ministero della Salute, oltre 837 mila persone, cifra a cui vanno aggiunti i cosiddette pazienti sommersi (coloro che non hanno ancora ricevuto una diagnosi).
Eppure, sarebbe sufficiente organizzare e mettere in pratica il modello già esistente affinché tutti questi individui possano ricevere le cure adeguate. «La psichiatria di comunità – spiega Zanalda – prevede l’istituzione di un’unica regia che coordini i servizi offerti all’interno del progetto riabilitativo per ogni singolo paziente. Oltre agli ambulatori, devono essere previste strutture residenziale e semi-residenziali e i reparti ospedalieri per la gestione delle acuzie. Questo modello è stato concepito allo scopo di non allontanare il paziente dal luogo in cui vive, salvaguardando le sue relazione, sia da un punto di vista affettivo che lavorativo. Chi non viene trattato in modo tempestivo ed adeguato, infatti, rischia di perdere tutto ciò che ha costruito negli anni precedenti all’esordio della malattia».
Purtroppo, però, dai primi sintomi al trattamento trascorrono in media 10 anni. Un tempo troppo lungo per tutte le malattie, comprese quelle di natura psichiatrica. «Prima si interviene e migliori saranno i risultati della terapia – evidenzia lo specialista – evitando la cronicizzazione della patologia. E per intercettare i disturbi psichiatrici precocemente è necessaria la presenza di un sistema organizzato ed efficiente».
E cosa accade laddove questo sistema non funziona o non è pienamente a regime? «Dipende molto dalle risorse familiari e individuali, così come dalle capacità del paziente di far valere i propri diritti. Purtroppo – conclude Zanalda – c’è anche chi finisce in prigione, chi diventa un homeless, trascorrendo una vita di trascuratezza e solitudine».
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