Il presidente Cnop David Lazzari plaude alla norma del Dl Ristori che incide sull’organizzazione dei servizi psicologici. Ma sottolinea: «Paghiamo arretratezza culturale. In questo momento ogni Regione ha modelli diversi, o per meglio dire spesso non ne ha. Questo fatto pesa molto negativamente»
Nei servizi di salute mentale in Italia risulta una media di 3,8 psicologi ogni 100mila abitanti, contro una media di 9,5 psicologi negli analoghi servizi dei Paesi nella stessa fascia di reddito. È uno dei dati che snocciola David Lazzari, Presidente del Cnop, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che a Sanità Informazione denuncia i gravi ritardi dell’Italia nell’assistenza pubblica psicologica anche in tempo di pandemia dove il bisogno di sostegno psicologico è molto aumentato nella popolazione.
Di fatto per Lazzari «non c’è stato un adeguamento numerico ed organizzativo della Psicologia nell’ambito della Sanità pubblica». La colpa, secondo il presidente Cnop, è anche dell’arretratezza culturale sul modo di vedere ed utilizzare la psicologia in Italia. Ma c’è anche un discorso organizzativo che ci vede indietro: quello dei modelli organizzativi spesso inesistenti in questo campo, un fattore che pesa negativamente perché impedisce una gestione coordinata di una risorsa professionale «che è tipicamente trasversale».
Presidente, come Ordine avete lanciato ripetuti allarmi sulla capacità della Sanità pubblica di affrontare gli aspetti psicologici in questa pandemia, perché?
«C’è un problema strutturale di inadeguatezza del Ssn in questo campo. L’evoluzione dei bisogni e delle conoscenze scientifiche ma anche delle stesse normative hanno ampliato il ruolo e la missione della Psicologia nei contesti sanitari. Basta leggere i “Livelli Essenziali di Assistenza” o il “Piano Nazionale delle malattie croniche” per capirlo. Ma a fronte di questa evoluzione non c’è stato un adeguamento numerico ed organizzativo della psicologia nell’ambito della sanità pubblica. È una carenza non rilevata dai monitoraggi che fanno Agenas e Ministero perché questi aspetti, nonostante le nostre richieste, non sono inclusi nella rilevazione dei dati, diciamo che si preferisce in qualche modo non sapere. Però il Crea, il Centro studi di economia sanitaria ha rilevato che, solo per trattare almeno la metà dei disturbi di ansia e depressione, ci vorrebbero come minimo il triplo degli psicologi oggi presenti, che nel Ssn sono tutti anche psicoterapeuti, ricordiamolo. Voglio aggiungere due dati: solo nei servizi di salute mentale in Italia risulta una media di 3,8 psicologi ogni 100 mila abitanti contro una media di 9,5 psicologi negli analoghi servizi dei Paesi nella stessa fascia di reddito, lo dice l’Oms nel World Mental Atlas 2017. L’Istituto Piepoli nel 2019 ha rilevato che sul totale delle attività psicologiche contemplate nei LEA solo un quarto trova effettiva risposta nei servizi pubblici. È una situazione che denunciamo da anni, e che personalmente ho documentato in molte pubblicazioni, ma ora con la pandemia si è mostrata in tutta la sua drammaticità».
Lei ha parlato di problemi organizzativi oltre che di numeri, che vuol dire?
«In Italia c’è un problema di arretratezza culturale sul modo di vedere ed utilizzare la psicologia, come se non avesse solide basi scientifiche e prove di efficacia. Eppure abbiamo leggi che portano il livello di preparazione dello psicologo e dello psicoterapeuta molto in alto: circa dieci anni di percorso per avere il titolo di psicoterapeuta. Siamo un paese di paradossi: facciamo formare le persone più che altrove per poi utilizzarle poco e male, un’assurdità. La situazione del Ssn ne è un esempio paradigmatico. Si dice che esistono tante sanità tante quante le regioni ma per la psicologia sono molte di più, centinaia: non solo ogni Regione ma ogni azienda ha modelli diversi, o per meglio dire spesso non ha alcun modello organizzativo sulla psicologia. Questo fatto pesa molto negativamente perché impedisce una gestione coordinata di una risorsa professionale che è tipicamente trasversale. La psicologia si occupa di aspetti che riguardano l’organizzazione sanitaria (es. clima organizzativo), il personale (stress, empowerment, lavoro in team, ecc.) e gli utenti e caregiver, per i problemi e disturbi psichici e per tutti gli aspetti psicologici (relazionali, comportamentali) connessi alla salute e disturbi/malattie fisiche e ai processi di cura. Se non c’è una gestione coordinata quest’insieme di attività è impossibile, al di là dei numeri degli psicologi».
Ora però nel Decreto Ristori, grazie all’emendamento della sen. Boldrini e altri, il principio di una Psicologia coordinata nelle aziende sanitarie da alcuni giorni è legge…
«Certamente, una tappa fondamentale, grazie a Paola Boldrini e agli altri politici che hanno capito questa esigenza, per rendere più efficiente il Ssn e la psicologia al suo interno. Una vittoria per la professione ma soprattutto per i cittadini perché avranno un servizio più efficiente se le Regioni faranno la loro parte».
Molti in passato hanno contrastato questa soluzione perché ci hanno visto un discorso corporativo…
«Scambiare un principio basilare di efficienza e dignità per altro è il vero corporativismo. La psicologia non è solo una professione ma è anche una scienza molto articolata e deve essere messa nelle condizioni di contribuire con i propri specifici modelli di analisi dei bisogni e di intervento ad un sistema sanitario integrato e multidisciplinare. La mancata organizzazione professionale ha impedito la valorizzazione di queste competenze ed il loro utilizzo in una cornice di integrazione tra professioni diverse. Voglio ricordare che ci si integra solo nella pari dignità e nel reciproco riconoscimento. Noi non facciamo battaglie di potere vecchio stile ma vogliamo essere attori e non spettatori né subalterni, rispettando i ruoli dei medici e degli altri operatori ma chiedendo analogo rispetto e riconoscimento».
Al Forum Risk Management ha parlato di un Ssn che deve finalmente diventare “sistema sanitario”. Cosa intendeva?
«Il Ssn ha mostrato nella pandemia la sua importanza ma nello stesso tempo i suoi limiti. Da anni è in corso un tentativo di svuotarlo per privatizzare la sanità, che è un grande business per molti. Ma questo non è nell’interesse dei cittadini, gli Usa insegnano. Ci serve un Ssn più moderno e flessibile, che funzioni appunto come un “sistema” che è un insieme di reti organizzate e coordinate, che lavori non per prestazioni e servizi separati, ma per obiettivi comuni. Abbattere muri e corporativismi per salvare un bene di tutti, renderlo più efficiente e più vicino alle persone. Noi abbiamo idee e proposte su questo, spero che qualcuno ci ascolti. La sanità si occupa di persone e le persone non solo corpi. Basta visioni novecentesche, lavoriamo per creare la sanità dei XXI secolo che è fatta di relazioni e persone oltre che di tecnologia. Altrimenti la grande lezione della pandemia sarà sprecata».
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