Lo studio dell’Università di Siena cerca nell’immunogenetica la ragione della differenza di incidenza del virus. La risposta forse negli alleli HLA che modellano la risposta immunitaria alle infezioni virali
Non molto tempo dopo l’epidemia della malattia da Coronavirus (Covid-19) in Cina, l’Italia è stata colpita dall’infezione ed è diventata rapidamente uno dei Paesi con il più alto tasso di mortalità. La malattia è stata rilevata per la prima volta il 20 febbraio in Lombardia e si è diffusa rapidamente in tutto il Paese. Le regioni meridionali e le isole, tuttavia, hanno registrato tassi di infezione molto più bassi nonostante si sia verificata una massiccia migrazione dalle regioni più colpite del nord verso il sud prima del blocco nazionale. Cosa può avere fatto la differenza nell’incidenza del contagio tra Nord e Sud Italia? Sono state proposte diverse ipotesi tra cui le diversità climatiche, ma nessuna di queste sembrerebbe giustificare la disparità numerica nei contagi.
Per indagare se alcuni determinanti immunogenetici avrebbero potuto contribuire a queste differenze, Antonio Giordano, MD, Ph.D., fondatore e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine, Temple University, a Philadelphia e professore di patologia presso l’Università di Siena, e il suo gruppo di ricerca hanno pertanto considerato la possibile associazione degli alleli del sistema genetico dell’antigene dei leucociti umani (HLA) nella popolazione italiana con la suscettibilità all’infezione da coronavirus Sars-Cov-2.
Il sistema HLA è un insieme di geni altamente polimorfici che hanno un ruolo chiave nel modellare la risposta immunitaria antivirale. Alleli specifici del sistema HLA sono associati allo sviluppo di una vasta gamma di malattie (tra cui malattie autoimmuni) e alla suscettibilità ad infezioni virali e rappresentano dunque validi candidati per spiegare la diversa suscettibilità all’infezione nella popolazione italiana.
Gli autori hanno condotto uno studio geografico, di tipo ecologico, per valutare la possibile associazione della prevalenza di alleli HLA e l’incidenza di Covid-19 nelle 20 regioni italiane e nelle loro province. I dati relativi alle frequenze alleliche HLA, e alla loro distribuzione nelle varie regioni italiane, sono stati ottenuti dal database pubblicato dal registro italiano donatori di midollo (IBMDR), che include circa 500.000 donatori volontari di cellule staminali emopoietiche provenienti da tutta la penisola.
Gli autori hanno selezionato quegli alleli HLA che mostravano diversa frequenza nelle varie regioni del paese per valutare se fossero correlate all’infezione da coronavirus. Complessivamente gli autori hanno identificato una serie di 7 alleli HLA di classe I che mostravano un’associazione positiva con i dati di incidenza Covid-19 (forniti dalla Protezione Civile) e 3 alleli HLA di classe I, che mostravano un’associazione negativa. Gli autori hanno quindi eseguito un’analisi di regressione multivariabile per esaminare gli alleli HLA indipendentemente l’uno dall’altro per escludere il confondimento reciproco e includendo anche le regioni nel modello come possibili fattori di confondimento.
L’analisi ha mostrato che, tra i 10 alleli, solo gli alleli HLA-B*44 e C*01 hanno mantenuto un’associazione positiva e indipendente con l’incidenza di Covid-19, suggerendo che queste varianti potrebbero essere permissive all’infezione virale. Gli autori hanno poi considerato regioni come l’Emilia Romagna e le Marche che hanno mostrato notevoli differenze intra-regionali dei tassi d’infezione inspiegabili all’interno delle province. Qui la prevalenza dell’allele B*44 sembra quasi esattamente predire l’incidenza di Covid-19.
«Non è sorprendente che sia l’allele HLA-B*44 che il C*01 siano stati precedentemente associati a malattie autoimmuni infiammatorie e che C*01 sia stato correlato a infezioni seno-polmonari ricorrenti» afferma Pierpaolo Correale, direttore dell’unità medica di oncologia del Grand Metropolitan Hospital “Bianchi Melacrino Morelli” di Reggio Calabria, autore principale dello studio «Ciò evidenzia la capacità di questi alleli HLA di innescare reazioni immunologiche inadeguate nei confronti di specifici antigeni del SARS-Cov-2».
«L’identificazione di alleli HLA permissivi o protettivi nei confronti dell’infezione da coronavirus potrebbe fornire informazioni preziose per la gestione clinica dei pazienti oltre a definire priorità nelle future campagne di vaccinazione in un modo facile ed economico» afferma il prof. Luciano Mutti, MD, dello Sbarro Institute di Filadelfia, co-primo autore dello studio. «Nonostante i limiti intrinseci degli approcci ecologici, questo tipo di studi ha il vantaggio di poter considerare un gran numero di casi che sono prontamente disponibili attraverso set di dati pubblici. Gli studi geografici infatti sono spesso i primi a identificare i fattori di rischio per una varietà di malattie. Saranno poi necessari studi caso-controllo per confermare questi risultati in coorti di pazienti Covid-19» afferma Giovanni Baglio, coautore dello studio, epidemiologo del Ministero della Salute. «Speriamo che ciò sia fattibile in tempi ragionevoli, perché la ricerca traslazionale in Italia incontra ancora molti ostacoli» conclude Giordano.
Lo studio nasce dalla collaborazione di un gruppo multidisciplinare tra cui Pierpaolo Correale e Rita Emilena Saladino del Grand Metropolitan Hospital “Bianchi Melacrino Morelli” di Reggio Calabria; Giovanni Baglio e Pierpaolo Sileri del Ministero della Salute italiano; Luciano Mutti del Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine, Temple University, Philadelphia USA; Francesca Pentimalli dell’Istituto Tumori di Napoli, IRCCS, Fondazione Pascale e Antonio Giordano Direttore dell’Istituto Sbarro della Temple University e professore all’Università di Siena.
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