Dagli anticorpi monoclonali al remdesivir, dal tocilizumab all’idrossiclorochina, una panoramica dei trattamenti utilizzati e in corso di sperimentazione
A più di otto mesi dal primo caso conclamato di COVID-19 in Italia, i trattamenti farmacologici contro l’infezione da SARS-CoV-2 sono cambiati, notevolmente. Le attuali linee guida sanitarie, in base alle nuove conoscenze scientifiche, sono determinate da istituzioni come l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), il Ministero della Salute e l’Agenzia europea EMA. Per capire quali siano i nuovi trattamenti contro COVID-19, abbiamo intervistato Patrizia Popoli, Presidente del Comitato Tecnico Scientifico di AIFA e Direttore del Centro Nazionale di Ricerca e Valutazione dei Farmaci ISS.
«Gli anticorpi monoclonali rappresentano senza dubbio un’opzione promettente, che potrebbe offrire un contributo significativo alla lotta contro il virus», esordisce Patrizia Popoli. Allo stato attuale solamente 3 aziende farmaceutiche sono riuscite ad approdare alla Fase 3 – ampia sperimentazione umana – sugli anticorpi monoclonali. Se riuscissero a dimostrarne l’efficacia entro la fine del 2020 (inizio 2021), potrebbero essere un game changer, ma «essi tuttavia non potranno rappresentare l’unica soluzione al problema, perché la protezione conferita dagli anticorpi sarebbe solo temporanea. Anche dopo una loro eventuale approvazione e conseguente commercializzazione, quindi, sarebbe comunque necessario sviluppare anche altri approcci».
Il plasma iperimmune non è un farmaco, per cui la competenza non ricade sull’AIFA, ma «dal Comitato Etico dell’Istituto Spallanzani è stato approvato lo studio TSUNAMI – spiega Popoli -. Si tratta di uno studio molto impegnativo, che vede la partecipazione di oltre 80 centri clinici e altrettanti centri trasfusionali distribuiti in 13 regioni. Dopo il disbrigo dei necessari passaggi burocratici (prese d’atto dei CE locali, firma dei contratti, eccetera) ed operativi, diversi centri sono stati attivati e al momento lo studio sta arruolando pazienti».
Questo trattamento, a differenza dell’Italia, è stato approvato negli Stati Uniti il 23 agosto con una “emergency authorization”, rendendolo gratuito in tutti gli ospedali americani, per infezione severa da COVID-19 (con difficoltà respiratoria). Mentre in Italia non esiste un uso diffuso, ma è vincolato all’autorizzazione del Comitato Etico di ogni singolo ospedale, almeno in attesa della conclusione del trial TSUNAMI.
Uno dei farmaci più dibattuti e controversi di questa pandemia è sicuramente l’idrossiclorochina. Sul farmaco sono apparse finora 102 pubblicazioni scientifiche (di cui 61 sono Peer Review). Di queste il 75% sono positive, mentre il 25% negative.
Tra queste pubblicazioni ci sono ricercatori e università del calibro di Yale, Sorbona, Columbia. «In effetti la letteratura disponibile sull’efficacia di clorochina ed idrossiclorochina può apparire contrastante, in quanto sono stati pubblicati studi che hanno riportato sia risultati positivi che negativi – commenta Patrizia Popoli -. Nessuno nega che alcuni degli studi positivi provengano da strutture “serie”, ma ciò che determina il valore di un certo risultato è – fondamentalmente – la forza metodologica dello studio che lo ha prodotto».
«Gli studi citati – prosegue – sono osservazionali, mentre per poter rispondere in maniera adeguata alla domanda “questo farmaco è efficace nel trattamento di questa malattia?” servono studi clinici controllati (nei quali cioè gli effetti del farmaco vengano confrontati con quelli di un trattamento di controllo) e randomizzati (nei quali cioè l’allocazione dei pazienti nei due gruppi, farmaco sperimentale o controllo, avvenga in maniera casuale). Nel caso dell’idrossiclorochina nessuno dei pochi studi randomizzati fin qui condotti ha mostrato un beneficio del farmaco, mentre in alcuni casi è emersa addirittura un’evidenza di maggiore rischio».
Analizzando le pubblicazioni, risultano vari studi randomizzati positivi. Ci sono, ad esempio, studi clinici controllati, come “Efficacia dell’idrossiclorochina in pazienti con COVID-19: risultati di uno studio clinico randomizzato”, “Trattare COVID-19 con clorochina“, od anche “L’effetto della terapia precoce a base di idrossiclorochina nei pazienti COVID-19 in strutture di assistenza ambulatoriale: uno studio prospettico di coorte a livello nazionale“.
La dottoressa Popoli, inoltre, cita una metanalisi francese: «Anche una recente revisione sistematica della letteratura che ha analizzato i risultati di 29 studi (tra randomizzati e osservazionali) ha concluso che l’idrossiclorochina non è efficace nel ridurre la mortalità e che anzi può addirittura incrementarla se associata all’antibiotico azitromicina». Le conclusioni di questa metanalisi, però, sono state messe in discussione da due pubblicazioni. In entrambe si conclude che l’essenza di una revisione sistematica è quella di prendere in considerazione tutti i dati al fine di fare una sintesi rigorosa, aperta e “leale” sull’argomento, criticando il metodo di selezione degli studi riportati: «Questo approccio è più simile alla selezione delle ciliegie che a una vera revisione sistematica senza considerazioni a priori».
Gli autori (Lacaut, Marcy, Perrone), si soffermano anche su un altro punto, il big trial di Oms che aveva portato al divieto su idrossiclorochina, RECOVERY: «Le dosi di idrossiclorochina somministrate ai pazienti COVID-19 in questo studio, (2400 mg il primo giorno, seguite da nove giorni a 800 mg/giorno) erano elevate e quindi potenzialmente tossiche».
Il ricercatore, che per primo propose l’uso di idrossiclorochina contro Sars 1 è Andrea Savarino, dell’ISS. La sua pubblicazione su The Lancet del 2003 è riportata dalle principali riviste scientifiche internazionali negli studi su idrossiclorochina e COVID-19. Il dottor. Savarino, raggiunto al telefono, ci ha informato che «non sono mai stato interpellato dall’ISS in merito alla decisione sul ritiro della delibera AIFA sull’uso off label di idrossiclorochina, e declino ogni e qualsiasi responsabilità su questa decisione».
Il tocilizumab, nelle prime fase della pandemia, è stato molto considerato; poi nuovi studi hanno determinato un cambiamento di prospettiva. «Il tocilizumab – spiega Popoli – è stato considerato da subito un farmaco molto promettente sia in considerazione del suo meccanismo d’azione (si tratta di un anticorpo monoclonale che può “spegnere” la reazione infiammatoria caratterizzata dall’aumento abnorme delle citochine), sia dai risultati ottenuti inizialmente su piccoli numeri di pazienti. Anche uno studio italiano (TOCIVID-19) ha mostrato degli effetti incoraggianti. Si trattava però di uno studio “non controllato”, nel quale cioè tutti i pazienti venivano trattati con il farmaco sperimentale (confrontando i risultati con una stima del tasso di mortalità dei pazienti non trattati), e che quindi non consente di trarre conclusioni solide. Anche diversi studi osservazionali condotti in alcune strutture cliniche italiane hanno evidenziato dei benefici legati al trattamento con tocilizumab. Tali benefici, tuttavia, non sono stati confermati da studi randomizzati condotti successivamente».
Il desametasone è un tipo di steroide utilizzato per ridurre l’infiammazione in una molteplice serie di casi, tra cui COVID-19. «In effetti tali farmaci sono stati utilizzati nel trattamento di malattie quali SARS e MERS, prima dello studio RECOVERY c’era un certo livello di incertezza sull’opportunità di utilizzarli in pazienti con COVID-19. Ciò anche in considerazione del decorso clinico del COVID-19, caratterizzato da fasi nelle quali un effetto antinfiammatorio potrebbe rivelarsi addirittura nocivo», il commento di Patrizia Popoli. Attualmente il desametasone è utilizzato come trattamento standard, sia nelle fasi avanzate che in quelle iniziali.
L’unico farmaco antivirale approvato da EMA e AIFA contro COVID-19 è il remdesivir. «In effetti – spiega la Presidente del CTS di AIFA – al momento remdesivir è l’unico farmaco registrato con questa specifica indicazione. Il farmaco tuttavia è indicato solo in condizioni cliniche ben definite, e cioè in pazienti con polmonite e necessità di ossigenoterapia ma non in ventilazione meccanica. Ovviamente è ancora troppo presto per valutare gli effetti del trattamento nella pratica clinica».
È apparso recentemente su Jama uno studio condotto su una coorte di 584 pazienti, in cui si conclude che il trattamento con il farmaco non ha mostrato una differenza statisticamente significativa nello stato clinico rispetto al gruppo che ha ricevuto l’assistenza standard (che non prevedeva remdesivir).
«In realtà questo studio – aggiunge la dottoressa Popoli – ha dimostrato che il farmaco migliorava lo “status” clinico (misurato tramite una scala a 7 punti) rispetto al trattamento standard nei pazienti trattati con remdesivir per 5 giorni ma non per 10 giorni. Il motivo di questa mancanza di efficacia del trattamento di 10 giorni (che oltretutto non è in linea con i risultati di altri studi) non è chiaro, e richiederà ulteriori approfondimenti. Al momento comunque in Italia è previsto un trattamento per 5 giorni».
Attualmente ci sono circa 300 sperimentazioni simultanee, su centinaia di molecole. Molte si sono rivelate poco significative e abbandonate, altre sono in corso di approfondimento. «In tutto il mondo sono in corso molti studi clinici che esplorano diverse ipotesi terapeutiche, ma al momento purtroppo non ci sono elementi per parlare di farmaci particolarmente promettenti, e non credo sia possibile fare previsioni a breve termine».
Ci sono, a livello mondiale, 7 vaccini in Fase 3 (sperimentazione avanzata). Per produrre un nuovo farmaco, in tempi normali, può volerci molto tempo (fino a 10 anni). In questa fase di compressione della storia e con un impegno di intelligenze e risorse mai realizzato prima, «l’attuale situazione sanitaria impone senza dubbio di conciliare due esigenze apparentemente contrapposte, e cioè quella di accelerare lo sviluppo dei vaccini mantenendo al tempo stesso il rigore metodologico del processo al fine di salvaguardare la sicurezza dei cittadini. Io non ho notizie diverse da quelle note a tutti, e cioè che – se tutto andrà nel senso atteso – almeno uno dei vaccini in sviluppo potrebbe ottenere l’autorizzazione al commercio nel giro di pochi mesi. I tempi necessari per disporre di un numero di dosi su larga scala non sono però definibili, perché (oltre che dipendere dai tempi di autorizzazione, che come ho detto dipendono da come andranno gli studi clinici) tale tempistica è strettamente legata alla capacità produttiva delle aziende», conclude Popoli.
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