Gianluca Castelnuovo, psicologo, dirige il centro specializzato dell’istituto Auxologico di Milano: «La citofobia colpisce in particolare i bambini, l’età media è di 12,9 anni, l’insorgenza della patologia è determinata da un evento traumatico. È bene rivolgersi ad un centro specializzato dove esiste una interdisciplinarità tra professionisti»
Si può chiamare: citofobia, sitofobia o cibofobia, diversi nomi per indicare la paura verso il cibo. Si tratta di un disturbo che, se trascurato, può diventare un completo rifiuto ad ingerire un prodotto tanto da richiedere un percorso di cura con un supporto psicologico in un centro specializzato. «In particolare, sono i bambini ad essere vittime di questa fobia – spiega Gianluca Castelnuovo, psicologo dell’istituto Auxologico di Milano –. Le percentuali sono basse e questo potrebbe rassicurare, ma con il lockdown e il Covid sono aumentate e destinate a crescere ancora».
La paura del cibo in alcuni casi si traduce in un completo rifiuto ad ingerire un determinato prodotto a causa di una reazione allergica o a ricordi negativi in molti casi viene confuso con l’anoressia: «Spesso non viene diagnosticato o viene classificato sotto un altro termine – fa notare lo psicologo -. Di sicuro colpisce soggetti più giovani, addirittura bambini. La paura del cibo subentra in chi ha avuto una esperienza negativa con un alimento che è stato ingerito male o non è stato ben tollerato dal corpo. Uno degli ultimi studi fatti, nel 2020, ha evidenziato che l’età media di chi soffre di citofobia è 12,9 anni e con una durata di malattia di circa 3 anni. È un problema che non scompare da solo con il tempo, anzi è bene intercettarlo subito e richiede un trattamento anche perché spesso è abbinata ad altre problematiche come ansia e perdita di peso».
L’origine può essere di diversa natura, spesso è traumatica. «Può capitare un soffocamento, un blocco, una mal digestione che crea una situazione di disagio forte che porta ad un rifiuto verso un determinato prodotto. Il problema non è la reazione di disagio al momento, che è sana – prosegue Castelnuovo – perché significa che il corpo ha attivato delle difese e si sta proteggendo, ma diventa patologica quando si tende a generalizzare e da meccanismo di protezione diventa fobia verso tutti i cibi che hanno quelle caratteristiche, ad esempio sono solidi o non si piegano al tatto con la forchetta».
I genitori si accorgono del problema quando i bambini smettono di mangiare oppure si evidenzia una perdita di peso importante. In tal caso è bene scongiurare con esami altre patologie per poi concentrarsi sulla citofobia. Ma non sempre il problema è così evidente. Riconoscere una fobia del cibo non è facile: «Non è così automatico che si passi dall’esperienza negativa alla cronicizzazione del problema – aggiunge lo psicologo dell’Auxologico – spesso è l’evitare un prodotto che porta a strutturare la patologia e si genera una perdita di peso che non è associabile all’anoressia perché non si evidenza un problema di fisicità, ma di rifiuto del cibo per paura. In quei casi però la diagnosi viene confusa ed è il motivo per cui non esiste un registro di chi soffre di citofobia». È fondamentale, dunque, che i genitori siano vigili e riescano a percepire ogni piccolo segnale che potrebbe rivelare un problema profondo. «Io uso spesso la metafora della casa – riprende -, dove ogni ambiente può essere rivelatore: la cucina quando il bambino inizia a consumare i pasti in orari differenti, oppure a nascondere il cibo che non mangia; in bagno quando si protrae troppo la permanenza, la camera da letto quando si isola con i social. Ogni comportamento di compensazione è un segnale d’allarme».
Nel momento in cui si identifica la fobia è importante rielaborare subito quanto accaduto, se ciò non accade occorre intervenire con un professionista. «Innanzitutto, si genera una ipersensibilità verso un determinato cibo, quindi è necessario desensibilizzare e far ripercorrere al paziente dei comportamenti che prima stavano nella norma. Ovviamente si fa in maniera graduale, con protocolli seguiti da psicologi e psicoterapeuti in collaborazione con pediatra e nutrizionista per riequilibrare l’apporto calorico».
Per affrontare al meglio la citofobia è bene rivolgersi ad un centro specializzato dove esiste una interdisciplinarità tra professionisti. «All’Auxologico abbiamo una équipe che stabilisce la strada migliore da percorrere insieme. Esiste il servizio di psicologia clinica che prende in carico il paziente e viene stabilito se è necessario un ricovero per ripristinare i valori di sicurezza del corpo, oppure se è sufficiente un lavoro ambulatoriale o in day hospital. Il numero degli incontri varia a seconda dalla gravità della fobia – aggiunge -, se viene presa all’esordio o se è già generalizzata. Anche con un percorso di pochi mesi si può fare un buon lavoro. Nel caso in cui la fobia sia radicata con deliri che distorcono la realtà, si valuta anche l’impiego di farmaci».
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