Mentre il sonno sta per sopraggiungere, ad occhi chiusi, nel proprio letto, si ripercorre la giornata appena finita. Improvvisamente, ci si ricorda di non aver inviato una mail urgente o il dubbio di aver commesso un errore nel completare un lavoro ci assale. Se fino ad un anno fa avremmo dovuto aspettare il mattino seguente e varcare la soglia del nostro ufficio per risolvere queste faccende, oggi, nell’era dello smart working, basta alzarsi dal letto per raggiungere la postazione pc a casa propria o, addirittura, allungare il braccio verso il comodino per prendere il proprio smartphone o tablet. «Lo smart working ha aumentato i disturbi da dipendenza da lavoro, il cosiddetto workaholic», spiega Davide Algeri, psicologo, psicoterapeuta, direttore scientifico del Servizio italiano di psicologia online.
Il telelavoro ha fuso l’ambiente privato con quello professionale: «Prima della pandemia si usciva di casa, si faceva un tragitto per arrivare a lavoro e già questo creava un distacco tra l’ambiente domestico e quello professionale. Adesso – continua lo psicoterapeuta – la maggior parte delle persone ha adibito ad ufficio un luogo del proprio appartamento, raggiungibile, senza sforzo, a qualsiasi ora del giorno e della notte. In questo modo, non è solo lo spazio fisico tra vita privata e lavorativa a ridursi, ma anche quello psicologico. I limiti e i confini tra la sfera personale e professionale sono così abbattuti».
Il workaholism è una dipendenza senza sostanze: «Il lavoro diventa una fissazione: la famiglia, le relazioni sociali e qualsiasi cosa non faccia parte dell’ambito professionale viene escluso dalla propria vita – dice Algeri -. Questa dipendenza genera piacere, poiché provoca il rilascio della dopamina, la stessa sostanza liberata dall’uso di stupefacenti». Quando il livello di questo ormone cala, il soggetto sentirà l’esigenza di ritornare a lavoro, proprio come il tossicodipendente ricorrerà ad una nuova dose di droga. «Il workaholism – sottolinea l’esperto – è, dunque, una dipendenza comportamentale che se non soddisfatta, può generare livelli variabili di ansia».
Perfezionisti, persone orientate al successo e soggetti con atteggiamenti compulsivi sono generalmente le persone che possono più facilmente sviluppare una dipendenza dal lavoro. «I perfezionisti – dice Algeri – perché non si fermano finché non arrivano alla loro rappresentazione mentale di perfezione, spesso tutt’altro che raggiungibile. Le persone orientate al successo, invece, sono tipicamente inarrestabili: arrivati ad un obiettivo, pensano subito al traguardo successivo. Infine, i soggetti compulsivi possono sviluppare dipendenza dal lavoro perché, anche di fronte al minimo errore, tendono a ripetere la stessa attività, rimanendo bloccati per lungo tempo su uno stesso lavoro».
Il workaholism, a differenza di tutte le altre forme di dipendenza, è socialmente accettato e quindi più difficile da riconoscere. «Una volta individuato, dal soggetto che ne è affetto o da chi gli sta accanto, la psicoterapia è utile ad aiutare l’individuo a focalizzare l’attenzione anche su altre attività dalle quali potrebbe trarre lo stesso piacere che deriva dal lavoro. Alternative – dice lo psicoterapeuta – che con le misure restrittive per contenere la pandemia da Covid-19 sono senza dubbio più difficili da trovare, tra socialità negata e palestre, teatri e cinema chiusi. Una situazione che, senza dubbio, ha contribuito ad aumentare la diffusione del workaholism. Se l’emergenza coronavirus ci ha tagliato fuori dalla vita sociale e ci ha allontanato dalle nostre passioni, allora, molti, costretti in casa, hanno pensato che potesse valere la pena buttarsi a capofitto nel lavoro». Ma attenzione: potreste accorgervi di essere affetti da workaholism quando sarà troppo tardi, quando questa dipendenza avrà già avuto effetti negativi sulla vostra salute. «Malesseri più o meno gravi, da sintomi gastrointestinali e gastrici, a debolezza, fino a problemi cardiaci, che – conclude Algeri – non lasceranno altra scelta che il riposo».
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