Come Irene, in Italia, ci sono 40 mila persone che convivono con la sindrome di Down, la maggior parte ha più di 25 anni ed è alla ricerca di un lavoro. Il muro della diffidenza è ancora troppo alto, Adriano: «Ho visto clienti rifiutare il caffè perché servito da un giovane con sindrome di Down»
«Quando l’ho vista all’opera mi sono detto: è nata per fare questo lavoro». È stato questo il primo pensiero di Adriano Petruzzo nel guardare Irene gestire la sala e i clienti del ristorante in cui entrambi lavoravano, il Milleluci Cafè di Firenze. Adriano è un cuoco, oggi quarantaduenne. Irene una ragazza con sindrome di Down che, all’epoca, aveva solo 18 anni.
«Ho conosciuto Irene quattro anni fa – racconta Adriano -. Aveva appena conseguito la maturità al liceo scientifico e non aveva alcuna esperienza lavorativa. Eppure, sembrava facesse quel lavoro da sempre: quando un cliente finiva la sua pietanza provvedeva subito a sparecchiare e, se aveva ordinato anche un secondo piatto, si assicurava che fosse già in preparazione, per evitare che attendesse troppo tra una portata e l’altra. Riusciva a coordinare sala e cucina in maniera impeccabile. E considerando che si trattava della sua “prima volta”, ho capito che aveva una dote innata».
Qualche anno dopo, la crisi economica scatenata dalla pandemia da Covid-19 ha lasciato entrambi senza un lavoro. Ma Adriano non si è perso d’animo, si è rimboccato le maniche e l’8 agosto del 2020 ha inaugurato un ristorante tutto suo, il “Chicco caffetteria piccola cucina”, nella stessa città, Firenze. «Quando ho dovuto assumere un’assistente di fiducia non ho avuto dubbi: ho scelto Irene – racconta il cuoco imprenditore -. È il mio braccio destro: si occupa del servizio sia ai tavoli che al banco, va a fare la spesa, le consegne e sta imparando anche a gestire la cassa. Irene è solare, altruista, intelligente, responsabile. Soprattutto, ama ciò che fa. E si vede».
Come Irene, in Italia, ci sono 40 mila persone che convivono con la sindrome di Down, la maggior parte ha più di 25 anni ed è alla ricerca di un lavoro. Per questo CoorDown, un’associazione nata per far conoscere le potenzialità delle persone con sindrome di Down, ha dedicato un’intera campagna di comunicazione, “The Hiring Chain”, all’inclusione lavorativa. «Con un video musicale interpretato da Sting – spiega Martina Fuga, responsabile della comunicazione di CoorDown – abbiamo deciso di raccontare che più persone con disabilità intellettiva vengono viste al lavoro e riconosciute come dipendenti di valore, più si apriranno nuove opportunità per molti altri».
La storia raccontata da Adriano ne è la conferma: ha conosciuto le potenzialità di molti ragazzi con sindrome di Down solo dopo averli visti all’opera. «Quando sono stato assunto al Milleluci Cafè mi sono ritrovato di fronte ad una realtà totalmente sconosciuta: non avevo mai lavorato spalla a spalla con persone con sindrome di Down. L’impatto iniziale non è stato semplice – ammette l’uomo, con la voce rotta dall’emozione -. Poi, giorno dopo giorno, la trisomia 21 è scomparsa: tra me e loro non notavo più alcuna differenza. Ho capito che quel cromosoma in più era solo nella mia testa e non si ripercuoteva nella loro professionalità, per nulla inferiore alla mia. Non eravamo più dei semplici colleghi, eravamo diventati amici».
L’esperienza di Adriano al Milleluci Cafè è durata 5 anni: «Trascorrere le giornate in compagnia di questi colleghi-amici mi ha arricchito l’anima e la mente – dice il cuoco -. Ho imparato a vivere la vita in maniera diversa, ho capito che ogni cosa ha il suo valore: i piccoli problemi non vanno ingigantiti e non possono rovinarti un’intera giornata, figuriamoci l’esistenza».
Ma come tutte le storie della vita reale, seppur a lieto fine, sono sempre intervallate da qualche pagina di tristezza, una strada in salita, un ostacolo da superare. «Il muro più alto che mi sono trovato davanti in questi anni di lavoro è la diffidenza – dice Adriano -. Ho visto con i miei occhi clienti rifiutare il caffè perché servito da un giovane con sindrome di Down o persone lasciare il locale dopo aver notato che dietro al bancone, in cucina o ai tavoli c’erano camerieri con sindrome di Down. Per fortuna, c’è chi va oltre il pregiudizio. C’è chi lo fa immediatamente e chi, invece, ha bisogno di provare e riprovare prima di dichiararsi “cliente affezionato”. E quando conoscono fino in fondo Irene – dice sorridendo Adriano – sono io a farne le spese: il suo caffè è migliore del mio. Lo dicono tutti».
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