Sistema sanitario nazionale messo a dura prova secondo il report Istat. Cambia la soglia dell’anzianità: non più 65 anni
L’Italia resta un Paese anziano. Gli ultra 80enni sono oltre 4,3 milioni e costituiscono il 7,2% della popolazione italiana. Le donne che quest’anno compiono 80 anni possono aspettarsi di viverne almeno altri 10 e i loro coetanei maschi poco meno di 9. Lo certifica il Report Istat 2020, sottolineando come «gli indicatori sulla dimensione qualitativa della sopravvivenza» mostrano negli anni un aumento della vita media in buona salute.
Le donne a 65 anni possono aspettarsi di vivere in buona salute almeno il 30% degli anni che restano loro, gli uomini più del 40%. Per le persone ottantenni, questa prospettiva si riduce al 23,6% dei 10 anni che restano ancora da vivere per le donne e al 33% dei 9 anni per gli uomini. Ma «analizzando la salute percepita nelle diverse generazioni di anziani – osserva il Rapporto 2020 – si può apprezzare meglio come le persone che giudicano cattivo il proprio stato di salute siano andate diminuendo a favore di quelle che si ritengono in buona salute». Nel 2000 riteneva di stare male o molto male il 36% circa degli ultra 80enni e nel 2009 uno su tre, oggi la quota degli ultra 80enni scontenti per il proprio stato di salute è scesa a uno su quattro.
Le donne restano penalizzate: tra le ultraottantenni solo il 21% dichiara di sentirsi in buona salute, contro il 28% degli uomini. Un dato che si può facilmente spiegare con la più alta mortalità prematura maschile, a cui sopravvivono persone con stato di salute migliore. Nel 2019, inoltre, gli over 80 affetti da comorbilità sono circa il 47%: una quota analoga a quella del 2000, nonostante nello stesso arco temporale la sopravvivenza degli uomini sia aumentata di oltre 4 anni e quella delle donne di circa 3 anni.
Cambia anche la soglia di età per considerare un “anziano”: non più 65 anni. Secondo il report Istat gli «indicatori tradizionali basati sull’età anagrafica non si prestano più allo scopo di definire chi sia anziano». Tanto che negli ultimi decenni, guardando alla speranza di vita residua, «lo spostamento in avanti della condizione di ‘anzianità’ è stato sempre più veloce», arrivando oggi a 73 anni per gli uomini e a 76 per le donne. E nel 2060, stando alle previsioni, si potrebbe arrivare a 76 e a 79 anni.
«Oggi un 65enne – si legge nel Rapporto – può condurre una vita nel pieno del benessere psico-fisico, essere ancora inserito nel mondo del lavoro o occuparsi attivamente dei propri interessi personali o familiari. Dal momento che la condizione stessa dell’anzianità tende a spostarsi in avanti nel tempo». Quasi il 50% degli ultraottantenni vive un’ottima qualità della vita, è molto attivo e ha una rete di relazioni estesa e una partecipazione culturale discreta, a volte anche intensa. Circa il 33%, pari a 2 milioni e 137mila, gode di buona salute, risiede soprattutto nel Nord e dichiara risorse economiche ottime o adeguate.
Sono stati ancora gli anziani a fare le spese della pandemia di Covid-19. Quasi l’85% dei decessi riguarda persone over 70, oltre il 56% quelle sopra agli 80. L’Istat sottolinea come essa ha colpito maggiormente gli anziani «sulle cui storie di salute hanno interagito l’effetto diretto dell’infezione e la predisposizione delle diverse malattie compresenti».
Con l’inizio della pandemia «gli interventi chirurgici programmati si sono rapidamente ridotti, fino a segnare un calo dell’80%». La pandemia ha infatti avuto «un significativo» impatto sulla quantità e il tipo di offerta del sistema sanitario italiano e «ne potrebbe influenzare la dinamica e l’organizzazione anche in futuro».
Secondo gli esperti dell’Istituto inoltre «l’inevitabile redistribuzione di risorse e una temporanea riorganizzazione dei percorsi di cura potrebbero avere già avuto un impatto sulla salute dei cittadini, in termini di ritardi diagnostici e di trattamento». Per quanto riguarda la chirurgia oncologica, «per gli interventi alla mammella si osserva una riduzione di circa il 20% nel mese di marzo, con picchi fino al 40% nell’ultima settimana».
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Una delle conseguenze «più drammatiche dell’epidemia è l’incremento complessivo della mortalità». I decessi totali subiscono un rapido e drammatico incremento nel mese di marzo (+48,6% rispetto alla media 2015-2019) arrivando a 80.623 (26.350 in più in valore assoluto). L’Istituto segnala che «l’incremento più marcato dei decessi nel mese di marzo è stato registrato in Lombardia (+188% rispetto alla media nello stesso mese del periodo 2015-2019); seguono l’Emilia-Romagna, con un aumento del 71%, il Trentino Alto-Adige (+69,5%) e la Valle d’Aosta (+60,9%)».
A livello locale i decessi nel mese di marzo 2020 aumentano di quasi 6 volte nella provincia di Bergamo (+571%), di circa 4 volte nelle province di Cremona (+401%) e Lodi (+377%), triplicano o quasi a Brescia (+292%) e Piacenza (+271%), sono più che raddoppiati a Parma (+209%), Lecco (+184%), Pavia (+136%), Pesaro e Urbino (+125%) e Mantova (+123%)”, registra il report.
«Un prezzo che la sanità pubblica ha pagato all’austerità è stato anche quello di non riuscire ad assicurare uniformità di salute e di opportunità di accesso alle cure sull’intero territorio nazionale e per tutte le categorie sociali. Purtroppo, si tratta di una circostanza che disattende uno dei principi che ha ispirato proprio la legge 883 del 1978 che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale», secondo il report Istat.
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«L’emergenza sanitaria che il Paese sta sperimentando a causa della pandemia da Covid-19 ha messo a dura prova il Ssn, sottoponendo a una pressione eccezionale e prolungata le strutture e l’organizzazione del sistema – prosegue il report Istat – L’assistenza sul territorio ha stentato ad arginare e circoscrivere tempestivamente il diffondersi dei contagi e la pressione si è scaricata velocemente sugli ospedali, che hanno rischiato il collasso, soprattutto nei reparti di terapia intensiva. Anche gli operatori sanitari sono stati sottoposti a uno stress intenso, a causa di turni di lavoro pesanti e a rischi gravi, per l’elevata probabilità di contagio».
«La difficoltà di contenere la pandemia attraverso l’azione sul territorio mette in discussione l’efficienza organizzativa di un sistema molto incentrato sull’assistenza ospedaliera e con un presidio del territorio troppo debole – conclude l’Istituto -. Tale modello organizzativo trova corrispondenza nell’allocazione delle risorse ai diversi livelli di assistenza sanitaria: un’ampia quota è assegnata all’assistenza ospedaliera, mentre all’assistenza sul territorio ne spetta una decisamente inferiore».