Il Presidente della Fondazione Gimbe si dice «ottimista» circa le intenzioni del nuovo ministro Speranza ma sottolinea: «Il ministro della salute difficilmente potrà determinare le sorti in positivo o in negativo del servizio sanitario nazionale»
«Salviamo il servizio sanitario nazionale». È questo l’appello lanciato dal Professor Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, presente al 14° congresso sulla qualità della vita e disabilità promosso da Fondazione Sospiro Onlus che si è svolto il 9 e il 10 settembre all’Università Iulm di Milano. Un appuntamento per i professionisti del settore chiamati a migliorare con la loro professionalità la qualità della vita dei pazienti, attraverso una sempre più capillare competenza per rispondere a questo diritto.
«Ritengo che questo sia uno degli argomenti più importanti – spiega Cartabellotta – perché spesso la qualità della vita non viene valutata nelle sperimentazioni cliniche e nei percorsi di cura dei pazienti, mentre capire come si sente il malato, a livello internazionale, rappresenta una nuova classificazione delle cosiddette unità di misura su cui valutare i risultati di una terapia o di un percorso assistenziale. Oggi la qualità della vita dovrebbe rientrare in tutti i percorsi di ricerca, ma soprattutto in quelli assistenziali, invece non è così. Non solo, il sistema sanitario ha problemi ancor più profondi».
Lei ha parlato di quattro patologie del Sistema sanitario nazionale. Quali sono?
«Noi abbiamo fatto una diagnosi perché abbiamo paragonato il Servizio sanitario nazionale ad un malato che oggi è affetto da quattro patologie: la prima è quella del definanziamento pubblico perché negli ultimi dieci anni sono stati sottratti circa 70 miliardi di euro e negli stessi anni dal 2010 al 2019 il finanziamento pubblico è cresciuto di 9 miliardi che di fatto non copre neppure i costi dell’inflazione. La seconda patologia è che, a fronte di un finanziamento pubblico così basso, abbiamo un paniere di livello essenziale di assistenza, quindi di prestazioni da garantire a cittadini e pazienti, troppo ampio. Poi c’è una terza patologia che è quella degli sprechi e delle inefficienze, i soldi sono pochi e non sempre vengono utilizzati bene; e la quarta patologia è stata identificata nell’espansione del secondo pilastro che di fatto rappresenta un avanzamento dell’intermediazione assicurativa all’interno del sistema sanitario nazionale non così chiaramente definita. Tutto questo avviene in un contesto condizionato da due fattori ambientali: un clima non perfettamente salubre nei rapporti tra Stato e Regioni e le aspettative dei cittadini e dei pazienti che sono sempre crescenti e non sempre informati da evidenze scientifiche e di buona qualità, ma oggi condizionate da quelle che sono le informazioni che circolano sul web in maniera virale attraverso i social e colpiscono tutti coloro che ne fanno uso».
Secondo lei cosa bisogna cambiare e in che modo?
«Dal punto di vista del finanziamento ci vuole la volontà politica di un rilancio del finanziamento pubblico, perché ora siamo in una fase di galleggiamento e la grande crisi di personale che ha colpito la sanità pubblica non è un fatto casuale, è emerso nel 2019, ma è frutto di un definanziamento decennale. Certamente dobbiamo migliorare i rapporti tra Stato e Regioni, perché al di là delle problematiche legate ad alcune regioni che sono Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, che spingono per ottenere l’autonomia differenziata, lo Stato deve aumentare capacità di indirizzo e verifica».
Tra le sfide del nuovo ministro della Salute, Roberto Speranza, quella di rendere omogeneo un servizio sanitario oggi frammentato e a diverse velocità…
«Dal punto di vista delle intenzioni del nuovo ministro sono ottimista, ma i meccanismi complessivamente ci dicono però che il ministro della salute difficilmente potrà determinare le sorti in positivo o in negativo del servizio sanitario nazionale».
Si è parlato di rapporto Stato e Regioni, si è parlato di autonomia. Secondo lei è una strada percorribile per migliorare la sanità pubblica?
«Il fatto che l’autonomia sia stata avviata nelle tre regioni che sono tra le più virtuose in Italia, in un’ottica regionale, non può che migliorare la sanità pubblica; il problema è capire quanto questo vada a contrastare il diritto alla tutela alla salute che dovrebbe essere omogeneamente esigibile in tutto il territorio nazionale. Noi siamo già davanti ad un sistema frammentato in 20 servizi sanitari regionali piuttosto che provinciali e lo Stato oggi non è in grado di esercitare adeguate capacità di indirizzo e di verifica pertanto, secondo la nostra valutazione, regionalismo differenziato sì, ma prima occorre pensare a potenziare meglio il ruolo dello Stato, altrimenti è inevitabile che chi è già avanti correrà ancora di più e chi è rimasto indietro non avrà la possibilità di assistere adeguatamente i propri cittadini».