Mortini (San Raffaele): «Il problema non è la risorsa tecnologica, quella arriva. Dobbiamo avere gli ingegneri, i riabilitatori, i chirurghi giusti per questo tipo di attività»
Le chiamano “brain-computer interface” e permettono al sistema nervoso e al cervello umano di dialogare. Il segreto: parlare la stessa lingua. Il sistema nervoso funziona con delle differenze di potenziale elettrico, lo stesso modo in cui funziona anche un computer. Oggi c’è la possibilità di far parlare queste due entità. L’alfiere di questa frontiera, dal punto di vista mediatico, è stato Elon Musk, ma i chip da inserimento cerebrale li ho visti fisicamente già più di 20 anni fa. Il problema era tutta la gestione informatica successiva.
«C’è stato un progresso e il fatto che oggi non solo ne parliamo, ma l’abbiamo fatto, indica che l’evoluzione tecnologica è velocissima. Penso che questo possa essere il futuro per la cura di malattie non solo traumatiche, ma anche di tutte quelle malattie degenerative come la sclerosi multipla e altre che portano alla perdita completa delle funzioni del midollo». È lo scenario tracciato da Pietro Mortini, primario di neurochirurgia dell’ospedale San Raffaele di Milano, a capo del team che ha impiantato un neurostimolatore midollare su una 32enne paralizzata da 5 anni, permettendole di tornare a camminare, con l’aiuto di un deambulatore.
Un futuro da cui ci separano «anni, ma non decenni – evidenzia Mortini, all’Adnkronos Salute – Mi piacerebbe vedere i miei allievi che tutti i giorni operano un paziente di questo tipo. E penso che sia realistico, però come sempre per fare grandi cose bisogna sognare e avere la determinazione per realizzare i sogni. Questo – puntualizza il professore ordinario dell’università Vita-Salute San Raffaele – oggi non è più un sogno, l’abbiamo fatto, è sotto gli occhi di tutti. E’ una realtà. Partiamo da qui per chiedere soprattutto risorse umane. Perché il problema non è la risorsa tecnologica, quella arriva. La tecnologia ormai nell’elettronica fa passi avanti impressionanti. In questo momento dobbiamo avere gli ingegneri, i riabilitatori, i chirurghi giusti per questo tipo di attività. È la sfida: se tutto questo diventerà un nuovo campo della neurochirurgia, bisognerà educare dei gruppi di persone con specialità e conoscenze diverse a lavorare assieme, e avere anche uno stile di lavoro diverso, più di squadra che individualista».
Per il neurostimolatore midollare, spiega Mortini, «abbiamo usato degli strumenti tecnologici che sono già in uso con altre indicazioni (dolore cronico), quello che è variabile è la modalità di funzionamento di questi elettrodi nel midollo e la programmazione di questo stimolatore, che è come un pacemaker di quelli che si usano per le malattie cardiologiche: manda un segnale che è uno stimolo elettrico su questi elettrodi posizionati chirurgicamente sul midollo con un delicato intervento». La programmazione di questo stimolatore «avviene a cura di un gruppo di ingegneri dedicati che stabiliscono, in base a una serie di algoritmi matematici, la successione e l’intensità della stimolazione, perché a ogni tipo di stimolazione corrisponde l’attivazione o disattivazione di un gruppo muscolare. Lo stimolo che arriva al midollo è una corrente elettrica che va poi a passare attraverso i nervi e da lì ai muscoli. E’ il primo caso che trattiamo così in Italia. Ci sono già esperienze molto limitate negli Stati Uniti e in Svizzera con alcune varianti», illustra lo specialista.
«Il nostro Irccs – aggiunge – riesce a concentrare le esperienze necessarie: chirurgica, neurofisiologica, neurologica, riabilitativa. C’è un team di una trentina di persone che lavora su questa paziente da diverse settimane. E’ un classico esempio di come un lavoro d’équipe porta a risultati molto incoraggianti. Per questo importante progetto – sottolinea Mortini – abbiamo la fortuna di collaborare con gli ingegneri della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, veri cervelli con i quali impariamo tante cose e ci scambiamo un sacco di informazioni. Stiamo praticamente convivendo assieme da circa due mesi. Loro ci mettono l’ingegneria, il San Raffaele la parte medica. La medicina – riflette Mortini – ci insegna che i grandi passi sono sempre stati fatti quando uno specialista guarda fuori dal suo campo, a una disciplina diversa, perché da questo confronto nasce sempre un’idea che gli altri non hanno o che tu non hai. Ovviamente, la meta decisiva è che un protocollo di ricerca clinica avanzata diventi una terapia – ragiona l’esperto – Come con i pacemaker: i primi montati decine di anni fa erano considerati sperimentali, adesso praticamente in ogni famiglia c’è qualcuno che lo porta in maniera assolutamente normale».
Nel futuro potrebbero diventare comuni queste applicazioni basate su ponti cervello-computer? «Sì – risponde Mortini – Voglio pensare all’utilizzo di queste tecnologie solamente per le funzioni motorie, esiste anche qualche applicazione per la vista, non oso pensare ad altre applicazioni. Mi concentrerei su queste cose semplici e importanti per la vita delle persone. Se cominciamo a immaginare di cambiare il carattere di una persona con la stimolazione cerebrale – conclude – entriamo in un capitolo che è molto pericoloso».
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