L’amnesia che si verifica nelle persone che subiscono ripetuti traumi alla testa, come ad esempio gli atleti, è una condizione che potrebbe potenzialmente essere invertita. Almeno questo è quanto ha dimostrato un gruppo di ricercatori del Georgetown University Medical Center, in collaborazione con il Trinity College di Dublino, Irlanda, in uno studio sui topi. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Neuroscience
L’amnesia che si verifica nelle persone che subiscono ripetuti traumi alla testa, come ad esempio gli atleti, è una condizione che potrebbe potenzialmente essere invertita. Almeno questo è quanto ha dimostrato un gruppo di ricercatori del Georgetown University Medical Center, in collaborazione con il Trinity College di Dublino, Irlanda, in uno studio sui topi. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Neuroscience. I ricercatori hanno scoperto, in particolare, che l’amnesia e la scarsa memoria, a seguito di un trauma cranico, sono dovute a un’inadeguata riattivazione dei neuroni coinvolti nella formazione dei ricordi.
I ricercatori di Georgetown avevano precedentemente scoperto che il cervello si adatta a ripetuti impatti alla testa modificando il modo in cui funzionano le sinapsi nel cervello. Questo può causare difficoltà nella formazione di nuovi ricordi e nel ricordare quelli già esistenti. Nel loro nuovo studio, i ricercatori sono stati in grado di indurre i topi a richiamare i ricordi che erano stati dimenticati a causa di impatti alla testa. “La nostra ricerca ci dà la speranza di poter progettare trattamenti per riportare il cervello che ha subito un impatto alla sua condizione normale e per recuperare la funzione cognitiva negli esseri umani che hanno scarsa memoria causata da ripetuti impatti alla testa”, afferma il ricercatore senior dello studio, Mark Burns, docente del Dipartimento di Neuroscienze di Georgetown e direttore del Laboratorio per le lesioni cerebrali e la demenza.
Nel nuovo studio, gli scienziati hanno dato a due gruppi di topi un nuovo ricordo addestrandoli in un test che non avevano mai visto prima. Un gruppo è stato esposto ad un’alta frequenza di lievi impatti alla testa per una settimana, simile all’esposizione che si verifica negli sport di contatto, e un gruppo di controllo non ha ricevuto alcun trauma. I topi colpiti non erano in grado di richiamare il nuovo ricordo una settimana dopo. “La maggior parte della ricerca in questo settore è stata condotta su cervelli umani affetti da encefalopatia traumatica cronica (CTE), che è una malattia degenerativa del cervello riscontrata in persone con una storia di impatti ripetuti sulla testa”, spiega Burns. “Al contrario, il nostro obiettivo era capire come cambia il cervello in risposta agli impatti di basso livello alla testa che molti giovani calciatori sperimentano regolarmente”, aggiunge.
I ricercatori hanno scoperto che, in media, i giocatori universitari di football ricevono 21 colpi alla testa a settimana, mentre i difensori ne ricevono 41 a settimana. Il numero di impatti alla testa sui topi in questo studio è stato progettato per simulare una settimana di esposizione per un giocatore di football del college, e ogni singolo impatto alla testa di per sé era lieve. L’utilizzo di topi geneticamente modificati ha permesso ai ricercatori di vedere i neuroni coinvolti nell’apprendimento di nuovi ricordi e hanno scoperto che questi neuroni della memoria erano ugualmente presenti sia nei topi di controllo che in quelli sperimentali. Dopo aver esaminato i neuroni associati al nuovo ricordo, i ricercatori hanno cercato di individuare la firma specifica di quelli attivati dal ricordo. Ebbene, i topi di controllo sono stati in grado di attivare questi neuroni, ma i topo che hanno subito impatti alla testa no. “Questo è ciò che ha causato l’amnesia“, sottolinea Daniel P. Chapman, altro autore dello studio.
In seguito, i ricercatori sono riusciti a invertire l’amnesia per consentire ai topi di richiamare i ricordi perduti utilizzando un laser. “Abbiamo utilizzato una tecnica invasiva per invertire la perdita di memoria nei nostri topi, e sfortunatamente questa non è trasferibile agli esseri umani”, specifica Burns. “Stiamo attualmente studiando una serie di tecniche non invasive per cercare di comunicare al cervello che non è più in pericolo e per aprire una finestra di plasticità che possa riportare il cervello al suo stato precedente”, conclude.
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