Per la prima volta lo studio “Emozioni in quarantena” dell’Unicusano mostra come i bambini fra i tre e i sei anni abbiano vissuto il lockdown e l’importanza di ripensare le tradizionali tecniche di insegnamento. Ai bimbi, infatti, è stato negato lo sviluppo sociale, linguistico e cognitivo
Come hanno vissuto i bambini il periodo di lockdown? E come dovrà essere ripensata la scuola dell’infanzia e primaria da settembre, quando per migliaia di alunni suonerà di nuovo la campanella? A queste e altre domande ha cercato di dare risposte la ricerca scientifica “Emozioni in quarantena” condotta da Stefania Morsanuto, professoressa di Psicologia speciale all’Università Niccolò Cusano, e pubblicata sulla rivista internazionale QTimes – Journal of Education, Technology and Social Studies.
Grazie al supporto dell’Heracle Lab dell’ateneo telematico, presieduto da Francesco Peluso Cassese, sono state mostrate delle immagini ai bimbi, fra i tre e i sei anni, che riproducevano sfere di vita quotidiana e si è scoperto come il periodo di quarantena sia stato molto sofferto: non sono riusciti a comprendere i motivi di allontanamento dalla scuola e dalle amicizie, fondamentali per i loro processi di sviluppo e crescita.
All’improvviso sono stati privati della propria vita e dei percorsi di apprendimento che ora, per non rischiare di farli rimanere indietro, saranno da ripensare. Secondo lo studio della professoressa Morsanuto, a collassare è stata la base del tradizionale percorso educativo e cognitivo: lontani dai banchi di scuola e dalle amicizie, è stata negata loro la parte della socializzazione, ricca di stimoli esterni e di confronto per lo sviluppo delle proprie capacità.
Inoltre è venuto meno l’aspetto del linguaggio. Secondo la docente, infatti, nei mesi di clausura domestica i bimbi «non hanno potuto affinare parole e modi di comunicare perché, a differenza dei coetanei, i genitori capiscono anche quando, per esempio, la pronuncia delle parole è errata. Un meccanismo che impedisce loro di autocorreggersi».
A mancare è stata poi la corporeità: chiusi in casa, senza contatti con stimoli esterni, hanno dovuto rinunciare alla parte fisica, indispensabile per il loro sviluppo e per la conquista della propria autonomia. «L’apprendimento – afferma Morsanuto – si completa attraverso il corpo, le relazioni con gli altri e l’ambiente circostante. Tutto questo è stato negato loro».
«Con il ritorno fra i banchi gli insegnanti avranno un ruolo decisivo e dovranno mostrare grande sensibilità», è il pensiero della psicologa. Il suo suggerimento è di ricorrere a tecniche didattiche che riportino al centro l’educazione formativa, l’alfabetizzazione emotiva e le risorse resilienti nei bambini attraverso diversi strumenti come i giochi di ruolo o i silent book, libri che attraverso le immagini li stimolano a costruire storie».
Inoltre, i risultati di “Emozioni in qurantena” dell’Unicusano hanno mostrato come i piccoli, nonostante fossero in grado di riconoscere sentimenti primari quali gioia, dolore o rabbia, non abbiano saputo coglierne le cause scatenanti. «In sostanza – chiarisce la professoressa Morsanuto – capivano che la mamma era triste o preoccupata durante il lockdown, ma senza saperne il perché».
«Di fronte all’immagine di genitori preoccupati davanti alla TV per il Covid-19 – continua la docente universitaria – è emerso che a volte i bambini riconoscevano il simbolo del coronavirus ma non capivano la preoccupazione dei familiari, altre volte i piccoli pazienti erano in grado di riconoscere l’espressione preoccupata di mamma e papà ma non identificavano il simbolo trasmesso dalla televisione».
Situazione ben diversa per chi ha vissuto da vicino il dramma della pandemia con la perdita, per esempio, di un familiare o l’isolamento di un parente positivo al Covid. In questi casi i bambini hanno avuto reazioni forti dimostrando non solo le conoscenze relative al virus, ma anche una buona mentalizzazione.
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