Ghelma (Asmed): «Formare medici e operatori sanitari al trattamento di pazienti con disabilità»
Hanno sempre bisogno di qualcuno che li sostenga, passo dopo passo. Se soffrono non sanno comunicarlo. Sono le persone affette da disabilità, fisiche e/o psichiche. Individui che se devono affrontare una comune malattia, che prescinde dalla loro disabilità, soffrono due volte. O almeno così accade nella maggior parte dei casi. «Sono quindici i centri, senza contare la regione Toscana che ha dotato ogni ospedale di un’equipe specializzata alla cura dei disabili, che offrono percorsi a misura per le persone affette da disabilità. Garantiscono servizi diurni, come ambulatori e day hospital, assistenza in pronto soccorso e ricoveri ospedalieri». A fotografare la situazione italiana è Filippo Ghelma, responsabile del reparto Dama (Disabled Advanced Medical Assistance ) dell’ospedale San Paolo di Milano.
Dama è stato il primo progetto d’Italia, inaugurato già venti anni fa, nato con l’obiettivo di definire percorsi nuovi di accoglienza medica coordinata a favore dei disabili gravi e gravissimi, con deficit intellettivo, comunicativo e neuromotorio. «Questo stesso modello è stato replicato in altri luoghi del territorio nazionale: 15 centri sono già attivi, altri 15 avrebbero dovuto aprire quando è esplosa la pandemia e si spera possano essere operativi al più presto», spiega il responsabile del reparto milanese. Se un disabile si troverà al di fuori di queste strutture è molto probabile che anche il più semplice percorso di cura si trasformerà in una salita e un banale esame diagnostico o una visita ambulatoriale in un ostacolo da superare.
«Gli ospedali e i percorsi ospedalieri, a qualsiasi livello, sia ambulatoriale che di pronto soccorso, che di ricovero, non sono concepiti per coloro che hanno caratteristiche particolari, per persone che abbiano esigenze differenti da un paziente ordinario – spiega Ghelma -. Pensiamo, ad esempio, ad un ricovero in ospedale: i reparti pediatrici sono già strutturati per accogliere il piccolo paziente ed uno dei suoi genitori. La mamma o il papà che se ne prenderà cura durante la degenza avrà a disposizione un letto, un bagno e, spesso, anche il vitto. E allora – chiede lo specialista – perché anche le persone disabili, che al pari di un bambino hanno bisogno della presenza del proprio caregiver h24, non vengono ricoverati in reparti dove oltre al proprio posto letto è previsto anche quello per chi li accompagna?».
Anche nei pronto soccorso la situazione è quasi sempre di totale disorganizzazione. «Non bisogna realizzare corsie preferenziali per i disabili – continua l’esperto -. Al contrario, è necessario creare le condizioni affinché possano attendere il loro turno in tranquillità, senza scavalcare un altro paziente che, pur non essendo disabile, potrebbe essere affetto da una patologia più grave. Alle persone con disabilità psichiche, che non riuscirebbero a sostare per più di qualche minuto in un luogo rumoroso ed affollato, ad esempio, andrebbe riservata una sala d’attesa “privata”. Così come dovrebbero aver diritto, laddove necessario e a seconda del singolo caso, alla sedazione procedurale. Se l’ospedale non ha un protocollo che ne preveda l’esecuzione, però, è improbabile che si riuscirà a trovare un anestesista disponibile ogni volta che se ne avrà bisogno».
Anche le visite ambulatoriali dovrebbero essere organizzate nel rispetto delle esigenze del singolo paziente. «Sarebbe importante permettere l’accesso a più visite ed esami in uno stesso giorno, usufruendo così (sempre laddove necessario) di una sola sedazione procedurale», commenta Ghelma. Anche i ritmi della giornata dovrebbero essere scanditi tenendo in considerazione le diverse tipologie di disabilità: «Pensiamo ai pazienti autistici che non tollerano gli ambienti rumorosi e che hanno bisogno di più tempo per adeguarsi. In questo caso – spiega lo specialista – le visite dovrebbero essere dilazionate nell’arco della giornata, consentendo al paziente di ambientarsi e sentirsi a proprio agio».
Ed è proprio per diffondere queste buone pratiche che tutti i medici aderenti al progetto Dama hanno dato vita ad Asmed, l’Associazione per lo Studio dell’assistenza medica alla persona con Disabilità, di cui Filippo Ghelma è presidente. «Il nostro obiettivo è creare una Rete Nazionale DAMA – spiega Ghelma -, che ci permetta di avere protocolli condivisi, così da garantire la migliore cura ai nostri pazienti, nei centri più adeguati alla patologia di cui soffrono. In questo modo sarà possibile rispettare il diritto alla salute e l’accesso alle cure delle persone con disabilità sanciti dall’art. 32 della Costituzione italiana, dall’art. 25 della Convenzione ONU sui diritti delle Persone con disabilità e declinato nella Carta dei Diritti delle persone con disabilità».
«Per perseguire questo obiettivo è auspicabile che tutti i medici abbiamo una formazione ad hoc per il trattamento dei pazienti con disabilità, a prescindere dalla loro area di specializzazione. Non è un’utopia – assicura Ghelma -. Sono professore universitario e come tale mi impegno nella preparazione dei miei studenti anche in questo ambito». Una formazione che, secondo il presidente Asmed, andrebbe estesa a tutte le facoltà di Medicina e Chirurgia d’Italia e non solo: «È necessario coinvolgere gli studenti, ma anche i medici e i professionisti sanitari già abilitati e chi, a vario titolo – conclude Ghelma – concorre all’assistenza ed alla cura dei disabili all’interno delle strutture del SSN».
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