La riorganizzazione della medicina generale, la gestione della domiciliarità e le Usca. Il quadro tracciato dal Vicesegretario FIMMG, Domenico Crisarà
La seconda ondata sarebbe arrivata, era una certezza quasi matematica. Un mantra che ha accompagnato l’estate degli italiani come uno spettro lontano e al tempo stesso incombente, mentre il Paese intero riprendeva fiato, letteralmente, con un calo (quasi azzeramento) di casi di Covid-19 e un contestuale allentamento delle misure di sicurezza. Quello che non si poteva prevedere, della seconda ondata, era quanto forte avrebbe colpito, quanto velocemente e, soprattutto, quando.
«Oggi – spiega Domenico Crisarà, Vicesegretario della FIMMG (Federazione Italiana Medici di Famiglia) –, nel bel mezzo dell’autunno, la situazione è già critica. Gli ospedali sono di nuovo in affanno, la curva dei contagi è “esponenziale”, come sottolineano i virologi, e l’imminente arrivo della stagione influenzale non aiuterà».
Ma riorganizzare efficacemente l’assistenza territoriale, il fattore X che nel corso della prima ondata avrebbe fatto la differenza consentendo di trattare efficacemente un gran numero di pazienti senza arrivare all’ospedalizzazione e al relativo sovraffollamento delle terapie intensive, è ancora possibile? Quanto si è fatto tesoro degli errori gestionali, frutto dello tsunami che ci travolse a marzo, e quanto invece è stato lasciato in standby, compromettendo il margine d’azione per reggere a questa seconda tornata del virus?
«Che in questi mesi siano mancati provvedimenti in favore della medicina generale è un dato di fatto – è il j’accuse di Crisarà, che rincara la dose –. Sono anni che chiediamo investimenti sul territorio, sulla medicina generale in termini di personale e di attrezzature diagnostiche. Noi medici di medicina generale stiamo facendo il possibile, nei limiti delle nostre possibilità. Fatte queste premesse – prosegue Crisarà – ad oggi la parola chiave per trattare i casi sul territorio è ‘sorveglianza’, sul modello veneto nella gestione della primissima fase dell’epidemia, che si traduce nell’essere costantemente in contatto telefonico con i pazienti a casa e fornendo pulsossimetri al bisogno».
«Il problema infatti – precisa Crisarà – comincia a sorgere nel momento in cui il paziente dovesse accusare la cosiddetta fame d’aria. Se non ci sono problemi respiratori ma solo una sintomatologia di tipo influenzale, quindi febbre e dolori muscolari o talvolta diarrea, il paziente può essere gestito a casa, monitorandolo costantemente proprio perché, come sappiamo, non si tratta di una normale influenza. Questo vale – prosegue il vicesegretario Fimmg – soprattutto per i pazienti “a rischio”, quindi con patologie pregresse, ma oggi sappiamo che l’età media dei contagiati si è abbassata e si tratta quindi di pazienti con meno probabilità di sviluppare complicanze».
Un discorso a parte meritano le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), una “creazione” che sulla carta sarebbe potuta essere un baluardo nella lotta al virus nella fase 1. Sono mai state davvero attive? Che ruolo avranno in questa seconda ondata? «Attive lo sono – afferma Crisarà –, il problema è che vengono utilizzate in mille modi diversi rispetto agli scopi per cui erano state istituite. Tanto per cominciare, le USCA dovevano essere a disposizione dei medici di famiglia per la gestione della domiciliarità, mentre nella maggior parte dei casi sono a disposizione dei distretti. Insomma – conclude il Vicesegretario FIMMG – non sono mai state amalgamate all’assistenza territoriale, viceversa sono, nella pratica, un’ulteriore figura sanitaria senza alcun coordinamento con l’assistenza primaria, spesso rappresentando solo una spesa».
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