Dopo settimane a 30mila nuovi casi al giorno, i numeri sono finalmente in flessione. Ma la seconda ondata sembra aver avuto un effetto più forte della prima, sebbene meno avvertito dalle misure più leggere. Quali solo le differenze e cosa aspettarsi dai mesi più freddi, una terza ondata è certa?
Da qualche settimana i numeri del Covid in Italia sono ufficialmente in discesa. Dopo il primo plateau, qualche timido segnale sembrano darlo anche i ricoveri in area non critica (-2000) e in terapia intensiva (-300) e, nell’ultima settimana, anche i decessi hanno riportato segno meno. La seconda ondata, però, è ben lontana dall’essere conclusa e gli esperti hanno ammesso che i tempi di ripresa potrebbero rivelarsi molto più lunghi della scorsa primavera.
Il parere di quegli scienziati che, lo scorso giugno, assicuravano che un’eventuale seconda ondata non avrebbe mai potuto superare la prima per numeri e gravità, è stato già abbondantemente smentito. L’impennata settembrina ha portato, in tre mesi, a un totale di oltre 730mila positivi attuali, con 30mila ricoverati e 3.345 persone in terapia intensiva (settimana 2-8 dicembre, Gimbe). A inizio ottobre i morti per coronavirus in Italia erano 35mila (dati Iss), ieri segnavano 61.879. Cifra raddoppiata in meno della metà dei mesi della prima ondata.
La prima ondata è stata quindi meno dura? Non è facile dirlo, l’andamento del virus non è solo questione di numeri. A guardarli, lo scorso 23 marzo l’Italia superava i 50mila contagi accertati e i 6mila morti, che il 28 marzo erano diventati 10mila. Lo faceva con la metà dei tamponi giornalieri che il sistema di testing riesce a fare adesso e lo faceva, come sostengono gli esperti, toccando probabilmente solo la punta dell’iceberg.
Quando a marzo Covid-19 costrinse il governo a chiuderci in casa, con il famoso “paziente 1” di Codogno scovato il 21 febbraio, l’epidemia correva in Italia già da qualche mese. In meno di tre settimane gli ospedali erano pieni, impossibilitati ad accogliere altri pazienti. I tamponi erano riservati ai sintomatici e il contact tracing funzionava estremamente a rilento. È ragionevole quindi pensare, come dimostrato poi anche dall’indagine di sieroprevalenza Istat messa in moto dal 25 maggio al 15 luglio, che le cifre fossero sottostimate.
I primi risultati della survey Istat mostrano in Italia una sieroprevalenza al 2,5%, ancora molto lontana dall’immunità di gregge, ma pari a circa 1 milione e 482mila persone venute a contatto con il virus durante la prima ondata. Assorbita, inoltre, al 51% dalla sola Lombardia, la regione più colpita in assoluto.
Gli unici dati che subiscono meno “l’effetto bias” sono quelli che riguardano i decessi, nonostante il dibattito sulle “morti per” e le “morti con” Covid-19. Morti che si caratterizzano da un’età media che resta sugli 80 anni e il 97% di casi di comorbidità. Durante la prima ondata, il 47,6% delle morti si registrava in Lombardia, mentre tra ottobre e dicembre la percentuale nella regione è scesa al 27%, secondo i dati Iss. Al contrario al centrosud le vittime sono aumentate cospicuamente: il Lazio è passato dal 2,4% al 7,9% della seconda, la Toscana dal 3% al 6,4. Ancora peggio la Sicilia, dallo 0,9% al 6,2% del totale, e la Campania, dall,1,4% all’8,3%.
Le letalità, ovvero il rapporto tra decessi e casi positivi, sembrerebbe essere più alta rispetto alla prima ondata. Il fisico Giorgio Sestili l’aveva calcolata a 1,25% fino al 18 ottobre, mentre tra quella data e il 15 novembre è salita all’1,70%. Quando questo accade, ha spiegato, la causa è – ancora una volta – nel fallimento del sistema di testing. Casi positivi «sottostimati, che aumentano più velocemente rispetto alla capacità di fare i tamponi». Nonché probabilmente superiori rispetto a quelli della prima ondata.
Ora gli esperti sembrano concordare anche sulle tempistiche della seconda ondata, stimate in tutto superiori alla prima sia per l’andamento della curva che per il periodo in cui ci troviamo. La fine del lockdown “duro” di marzo era andata a corrispondere perfettamente con l’inizio dei primi caldi. Un clima più mite e secco aveva aiutato i numeri già in remissione e l’Italia era tornata persino ad andare in vacanza.
Al contrario, le misure adottate questo autunno sono state molto più concessive delle precedenti e, purtroppo, anche più aggirabili. Sia da parte dei datori di lavoro, che in molti casi non hanno proseguito lo smart-working, sia da parte dei cittadini, che anche se in zona rossa si sono concessi più contatti rispetto alla primavera. In più, l’arrivo della stagione invernale, con i virus respiratori favoriti dal clima e dalla circolazione, farà la sua parte nel rendere il miglioramento meno visibile. Il declino della seconda ondata sarà perciò molto più lento e “fragile”. Rispettare le misure sarà essenziale per evitare il riaccendersi dei focolai e c’è da sperare che, con mascherine e vaccini, anche l’influenza mostri un rallentamento rispetto agli anni passati.
«L’arrivo della terza ondata dipenderà da noi», ha detto il professor Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, di fronte alla domanda che tutti gli italiani si stanno facendo in questi mesi. Ci sarà una terza ondata? «Se non ci comportiamo meglio dell’estate, è una promessa», ha ribadito, ricordando che questo non è un virus con cui si può scendere a compromessi.
«L’Italia alla fine della prossima settimana sarà il paese con più morti in Europa, non è qualcosa di cui essere orgogliosi» ha puntualizzato invece Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di microbiologia dell’Università di Padova. «Natale, con scuole chiuse e fabbriche a ritmo ridotto, va sfruttato per ridurre i contagi – ha detto -. La terza ondata in queste condizioni è una certezza. Siamo in una situazione grave stabile, ci attende un inverno preoccupante».
Anche la professoressa Ilaria Capua, direttrice dell’UF One Health Center, ha assicurato che nonostante la fase di stabilizzazione, «la terza ondata ci sarà, è naturale». La curva, ha specificato, si sta abbassando ma non azzerando, e anche con l’inizio delle vaccinazioni coprire tutta la popolazione entro l’anno sarà un’impresa.
Il piano vaccini sarà pronto a breve e, dopo il parere dell’Ema sui vaccini Pfizer e Moderna, previsto per il 29 dicembre, anche l’Italia a metà gennaio potrebbe cominciare con le iniezioni. Prima personale sanitario, anziani e persone fragili. Poi, lentamente, tutti gli altri. E per allora si spera che altri vaccini saranno stati approvati. Per gli esperti, però, la terza ondata non sembra essere in dubbio sul “se” ma sul “quando”. Rallentarla rispettando le misure e limitando i contatti, è ancora l’unico strumento che abbiamo per evitare altri 20mila morti.
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