CAPE (Ass. Pazienti Endocrini): «Bene documento condiviso, ora migliorare presa in carico territoriale»
Familiarità, genetica, cronicità. Questi i temi maggiormente attenzionati nell’ambito della Settimana mondiale della Tiroide 2023 in corso dal 22 al 28 maggio, che ha coinvolto, oltre alle principali società scientifiche dell’endocrinologia italiana, anche le realtà associative di pazienti con patologia tiroidea. Anche per rispondere alle numerose istanze di questi ultimi, le società scientifiche hanno elaborato un documento chiarificatore, condiviso con l’Istituto Superiore di Sanità, volto a dissipare i dubbi e rispondere alle domande più frequenti, dal titolo “Tiroide: genetica, familiarità e cronicità”. Su questi temi, ma anche sulla prevenzione e sulle criticità nella presa in carico, Sanità Informazione ha intervistato il professor Rinaldo Guglielmi, coordinatore AME (Associazione Medici Endocrinologi) per la Settimana della Tiroide, e la presidente CAPE (Comitato delle Associazioni dei Pazienti Endocrini) Anna Maria Biancifiori.
«La familiarità nelle patologie tiroidee era considerata in passato molto incisiva – afferma Guglielmi – In realtà oggi sappiamo che una ereditarietà vera e propria riguarda una percentuale minima di pazienti ed è relativa soprattutto ad alcune sindromi congenite e alla forma familiare del tumore midollare della tiroide, piuttosto raro. Nell maggior parte dei casi, invece, la familiarità consiste nell’ereditare una predisposizione verso alcune patologie tiroidee, tra cui i noduli della tiroide o la tiroidite, che però presuppongono un fattore “trigger” esogeno perché la patologia si sviluppi. La causa principale della patologia tiroidea più diffusa, cioè il gozzo, è invece la carenza di iodio, che nel nostro Paese è stata fortemente arginata grazie alle campagne che l’endocrinologia italiana mette in campo, e sulla diffusione del consumo di sale iodato».
«Il sale iodato – prosegue Guglielmi – sicuramente consente di prevenire gran parte delle patologie tiroidee, o almeno di ridurne l’espressività clinica. Per contro negli ultimi anni un certo abuso incontrollato di integratori sta contribuendo a favorire la comparsa di alcune patologie autoimmuni anziché aiutare a prevenirle. La diagnosi precoce invece ha una rilevanza molto importante nell’ambito delle indagini effettuate dalla donna in gravidanza: il dosaggio TSH, infatti, può far emergere disturbi tiroidei non diagnosticati in una fase precedente perché magari in uno stato sub-clinico. Il mutato assetto ormonale della gravidanza, invece, può “slatentizzare” questi disturbi che comunque, con una adeguata correzione terapeutica, sono assolutamente gestibili».
«La patologia tiroidea è una della più importanti nell’ambito delle cronicità – spiega ancora il professor Guglielmi – e questo è un punto centrale se parliamo di monitoraggio e gestione terapeutica. Come nella maggior parte delle patologie croniche gestibili attraverso i farmaci e che non hanno una evoluzione particolarmente negativa, il paziente appena diagnosticato è particolarmente attento e scrupoloso verso il suo percorso terapeutico. Poi, man mano, che la patologia si incardina sui binari della gestibilità, accade che la tensione si allenta e il paziente tende a diradare i controlli. Tuttavia – sottolinea – poiché molte patologie tiroidee insorgono in media verso i 40/50 anni, allentare i controlli nella terza età significa rischiare che alcune comorbidità tipiche di questa fase si associno alla patologia tiroidea dando luogo ad esiti più gravi. Insomma, un controllo annuale dei valori tiroidei è decisamente opportuno».
«Oggi viviamo una estesa difficoltà – osserva la presidente CAPE Annamaria Biancifiori – perché i servizi ospedalieri dopo il Covid sono particolarmente in sofferenza. A funzionare male è la relazione tra il secondo livello di specializzazione, quindi le aziende preposte a verificare patologie tiroidee complesse, e i servizi territoriali. Il paziente deve essere preso in carico da un team di alta specialità in caso di necessità, ma per il follow up deve essere rimandato al medico di famiglia, se non insorgono problematiche particolari. In alcuni casi la presa in carico territoriale funziona, in altri no. C’è un gap quindi che spesso porta il paziente a rivolgersi al privato. E purtroppo – conclude la presidente CAPE – anche le Regioni tradizionalmente virtuose in questo senso oggi iniziano a perdere colpi, a causa della sempre maggiore carenza di personale».
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