Un report pubblicato su The Lancet ha concluso che i sistemi sanitari di tutto il mondo fanno troppo per prolungare la vita delle persone e fanno troppo poco per rendere la morte meno dolorosa. Questa carenza di attenzione verso le cure palliative sarebbe la causa di molte sofferenze
Si lotta tanto per prolungare la vita, ma si fa ancora troppo poco per rendere meno dolorosa la morte. Sono queste le conclusioni di un report stilato da un gruppo di 27 esperti internazionali, specializzati in varie discipline (salute, scienze sociali, economia, filosofia, scienze politiche, teologia). Il documento è stato pubblicato sulla rivista The Lancet. Gli studiosi affermano che attualmente moltissime persone in tutto il mondo fanno una «brutta morte» perché le famiglie e i medici sono troppo impegnate a fare tutto il possibile per posticiparla, anche se è inevitabile. Questa carenza di attenzione verso le cure palliative sarebbe la causa di molte sofferenze.
La pandemia, secondo il report, non avrebbe fatto altro che esacerbare questo sbilanciamento a svantaggio delle cure palliative. Di conseguenza, sottolineano gli esperti, i sistemi sanitari e sociali di tutto il mondo non riescono a fornire cure adeguate e compassionevoli alle persone che stanno morendo e alle loro famiglie. La scarsa attenzione al fine vita, unita ai costi elevati delle cure palliative, «hanno portato milioni di persone a soffrire inutilmente alla fine della loro vita», sottolinea il report. Gli esperti chiedono quindi un maggior equilibrio nei confronti della morte, abbandonando l’approccio della medicalizzazione eccessiva e sposando più un modello di comunità compassionevole, «dove le comunità e le famiglie lavorano con i servizi sanitari e sociali per prendersi cura delle persone che stanno morendo».
Per arrivare a queste conclusioni la commissione ha esaminato come le società di tutto il mondo gestiscono la morte e la cura delle persone che muoiono, formulando raccomandazioni ai responsabili politici, ai governi, alla società civile e ai sistemi sanitari e di assistenza sociale. «La pandemia di Covid-19 ha visto molte persone morire di una morte medicalizzata, spesso da sole, solo in presenza di personale sanitario con le mascherine negli ospedali e nelle unità di terapia intensiva, incapace di comunicare con le proprie famiglie se non digitalmente», spiega Libby Sallnow, specialista in medicina palliativa e co-presidente della commissione. «Il modo in cui le persone muoiono è cambiato radicalmente negli ultimi 60 anni, da un evento familiare con supporto medico occasionale a un evento medico con supporto familiare limitato», afferma aggiungendo che «dobbiamo ripensare il modo in cui ci prendiamo cura delle persone che stanno morendo, le nostre aspettative di morte e i cambiamenti necessari nella società per riequilibrare il nostro rapporto con la morte».
Secondo gli esperti , negli ultimi 60 anni, la morte ha cessato di verificarsi in un ambiente familiare e comunitario per diventare la principale preoccupazione dei sistemi sanitari. Nel Regno Unito, ad esempio, solo una persona su cinque che necessita di cure di fine vita è a casa, mentre circa la metà è in ospedale. Anche in Italia le cose non vanno meglio. Lo spiega bene la senatrice Paola Binetti, nel suo intervento di ieri al convegno «Custodire ogni vita»: «Abbiamo bisogno di rilanciare in modo capillare e sempre più qualificato il grande tema delle cure palliative, moltiplicando non solo gli hospice ma tutte le forme di assistenza domiciliare. La gente non vuole morire prima del tempo, anzi se potesse allungherebbe il proprio tempo di vita, ma non vuole soffrire, non vuole essere di peso alle persone care, teme di essere lasciata sola, forse perfino abbandonata. È necessario investire maggiormente sulle terapie del dolore, totalmente trascurate dal nostro Sistema sanitario». E aggiunge; «Al momento alla Camera abbiamo una proposta di legge che disciplina il Fine vita – riferisce la senatrice – che esclude in toto le cure palliative, ignorando delle terapie che sono indispensabili per preservare la vita dei pazienti fino all’ultimo istante della loro vita”.
Secondo il report, l’aspettativa di vita è aumentata costantemente, passando da 66,8 anni nel 2000 a 73,4 anni nel 2019. Tuttavia, le persone vivono più a lungo anche con problemi di salute. Tanto che il numero di anni con cui si convive con una malattia è passato da 8,6 (nel 2000) a 10 (in 2019). Il lavoro ricorda che, prima degli anni ’50, i decessi erano prevalentemente il risultato di una malattia o di un infortunio acuto, con uno scarso coinvolgimento di medici o tecnologia. Oggi «la maggior parte dei decessi è dovuta a malattie croniche, con un alto livello di coinvolgimento di medici e tecnologia», sottolineano gli esperti. «L’idea che la morte possa essere sconfitta è ulteriormente alimentata dai progressi della scienza e della tecnologia, che hanno anche accelerato l’eccessiva dipendenza dagli interventi medici alla fine della vita», insistono i ricercatori.
Gli esperti sostengono inoltre che, man mano che la salute si è spostata al centro della questione, «le famiglie e le comunità sono state sempre più alienate». Spiegano gli esperti: «Il linguaggio, le conoscenze e la fiducia per sostenere e gestire la morte sono andate lentamente perse, alimentando un’ulteriore dipendenza dai sistemi sanitari». Gli esperti riconoscono inoltre che mentre le cure palliative hanno guadagnato attenzione come specialità, «più della metà di tutti i decessi si verifica senza cure palliative o sollievo dal dolore e le disuguaglianze sociali e sanitarie persistono nella morte», sottolineano, aggiungendo che gli interventi medici spesso proseguono «fino agli ultimi giorni con un’attenzione minima alla sofferenza» e che la cultura medica, la paura del contenzioso e gli incentivi finanziari «contribuiscono anche al trattamento eccessivo del fine vita, alimentando ulteriormente i decessi istituzionali». Nel report si specifica che sono i professionisti della salute che devono «gestire la morte».
Gli esperti definiscono cinque principi per una nuova visione della morte e dell’atto di morire, considerando che i «determinanti sociali della morte» devono essere affrontati per consentire alle persone di vivere una vita più sana e morire più giustamente. Gli studiosi sostengono che la morte dovrebbe essere intesa come un processo «relazionale e spirituale», piuttosto che semplicemente fisiologico, e che le famiglie e i membri della comunità dovrebbero essere inclusi nelle reti di assistenza per le persone che sono alla fine della loro vita. Suggeriscono inoltre che le conversazioni e le storie sulla morte, la morte e il dolore dovrebbero essere incoraggiate e sostengono che la morte dovrebbe essere riconosciuta come un valore. «Senza la morte, ogni nascita sarebbe una tragedia», concludono.
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato